ROBERT DE NIRO: l'immagine immortale

Compie 60 anni l'attore la cui immagine è ormai parte dell'immaginario collettivo. De Niro è il corpo che occupa per intero i film, l'esito ultimo del metodo Stanislavski dell'Actor's Studio: l'attore che si annulla totalmente nel personaggio fino ad assumerne l'identità più intima e a diventarne l'immagine riconosciuta al di là del film stesso

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Di anni, in questi giorni, Robert De Niro ne ha fatti sessanta ed è come se a compierli fosse uno di noi, un parente, qualcosa in più di un semplice conoscente. Come tutti i grandi divi del cinema americano, Robert Denero, come appariva scritto nei primi suoi film alla fine dei Sessanta, in quarant'anni di carriera è diventato il simbolo di un'epoca e del suo cinema, l'immagine mitica dell'America del dopo-Vietnam della quale il pubblico si è da tempo appropriato. Di anni ne fa sessanta, tre in meno dei suoi film, in un percorso che dai teatri off Broadway di New York, sua città natale, attraverso i battesimi (o quasi) alla regia di De Palma (Oggi sposi, 1969, Hi, Mom!, 1970) e Scorsese (Mean Streets, 1973), lo ha portato a diventare il volto e il corpo più espressivo e riconosciuto del cinema americano contemporaneo.

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Più di Pacino e Hoffman, De Niro è riuscito ad emergere oltre i bordi dell'inquadratura per vagare, immateriale e immortale, nelle pieghe dell'immaginario collettivo. L'immagine astratta di De Niro è l'insieme di tutti i film che ha fatto: è Trevis Bickle che cammina allucinato e insonne per le strade di New York, Jack La Motta con il volto sfigurato che invoca pugni da Sugar Ray Robinson; è il soldato Michael che nell'inferno del Vietnam gioca alla roulette russa con i vietcong, lo psicopatico Max Cady che ha tatuata sulla schiena la bilancia della giustizia. E non serve specificare che si parla di Taxi Driver (1976), Toro Scatenato (1980), Il cacciatore (1978) e Cape Fear (1991): lo si sa non appena letti i nomi dei personaggi e riconosciute le situazioni. De Niro è l'idea stessa di quei film, è il corpo che li occupa per intero, l'esito ultimo del metodo Stanislavski imparato all'Actor's Studio: l'attore che si annulla totalmente nel personaggio fino ad assumerne l'identità più intima e a diventarne l'immagine riconosciuta al di là del film stesso.

De Niro che ingrassa di trenta chili per interpretare La Motta, che si fa stempiare per assomigliare ad Al Capone in Gli intoccabili (De Palma, 1987), che frequenta boss mafiosi per Quei bravi ragazzi, 1990: al di là e al di qua del personaggio, l'attore entra fisicamente nel film impossessandosi in modo assolutamente naturale delle singole inquadrature. Non siamo dalle parti di un Costner o di un Gere, che occupano con i loro faccioni l'intero campo per celebrare la loro immagine. De Niro, attore vero, celebra l'immagine di un altro (il personaggio), al servizio delle disposizioni di un altro ancora, il regista.


E se nei Settanta sono tanti i grandi che gli cuciono addosso personaggi diversi – Coppola con il giovane Don Vito del Padrino – Parte II, 1974, il primo Oscar, Bertolucci con il rampollo Alfredo Berlinghieri di Novecento, 1976, Kazan con il tycoon di Gli ultimi fuochi, 1976 – è  poi Scorsese a diventare l'altro per eccellenza di Robert De Niro. Il sodalizio tra i due ha dato vita a otto film, da Mean Streets a Casinò, 1995, creando il mito al contrario dell'uomo tormentato, imperfetto, spesso iroso, che attraversa trent'anni di storia americana. De Niro è l'immagine della solitudine orgogliosa e patetica dell'uomo comune, i suoi personaggi si muovono recando segni indelebili di una sconfitta già avvenuta. Combattente senza speranza, anormale in un mondo assurdamente normale, De Niro ha fornito le migliori interpretazioni proprio nei personaggi scorsesiani (e non sapremmo scegliere tra Trevis, La Motta, Cady, il Rupert Pupkin di Re per una notte, 1983, l'irlandese Jimmy di Quei bravi ragazzi, l'ebreo Asso Rothstein di Casino) e poi nei casi in cui ha ripreso fisicità e modalità di quei caratteri.

Ne Il cacciatore, il reduce dal Vietnam Michael è la controparte riflessiva, disillusa, ma altrettanto sconfitta, dell'altro reduce Trevis, mentre in C'era una volta in America, 1984, attraverso lo sguardo innamorato di Leone, il gangster ebreo Noodles è l'emblema stesso della sconfitta e del sogno tradito. La vena disillusa e intimista è poi riversata in personaggi grigi e normali protagonisti di un cinema altrettanto anonimo, come quello di Grosbard (L'assoluzione, 1981, Innamorarsi, 1985), Winkler (Indiziato di reato, 1991), McNaughton (l'ottimo Lo sbirro, il boss e la bionda, 1993) e, soprattutto, come quello della sua unica regia, Bronx 1993, scorsesiana per temi e ambientazioni (Little Italy, gli anni Cinquanta, la malavita), ma assai misurata per stile e recitazione.


Altrove, invece, De Niro direziona nevrosi e affanni verso esiti comici ed esuberanti. Una modalità sperimentata da Scorsese stesso nel teppista Johnny Boy di Mean Streets, nel sassofonista arruffone di New York, New York (1977) e nel comico psicopatico di Re per una notte, e che De Niro ha poi ripreso saltuariamente, con esito efficace in Prima di mezzanotte (Martin Brest, 1988), dove c'è tutta l'ironia, la spavalderia e l'inutile eroismo del suo personaggio, e con risultati meno esaltanti in Non siamo angeli (Neil Jordan, 1990) e nelle molte brutte commedie di questi ultimi anni (la serie Analize This e That, 1999 e 2002).


Il sodalizio con Scorsese è così forte che quando i due non collaborano, l'attore si abbandona a "sperimentazioni" e mutamenti d'immagine. Negli anni Ottanta, nell'intervallo tra Re per una notte e Quei bravi ragazzi, De Niro compare irriconoscibile in uno (splendido) ruolo minore in Brazil (Terry Gilliam, 1984) e, con  barba e capelli lunghissimi, in Mission (Roland Joffe, 1986), Angel Heart (Alan Parker, 1987) e Jacknife (David Jones, 1989). Qui da noi perde addirittura la voce di Ferruccio Amendola (quasi un unicum con l'attore) e allora lo spaesamento dello spettatore è totale: una specie di tradimento per chi è cresciuto con il poster di Taxi Driver in camera.

Se, però, De Niro si è perso, lo ha fatto proprio nel terreno a lui più caro, quello del metodo, con gli eccessi e la maniera degenerati nelle mostruosità involontarie di ruoli da analfabeta, ammalato e fanatico (Lettere d'amore, Martin Ritt, 1989, Risvegli, Penny Marshall, 1990, The Fan, Tony Scott, 1996) o in quelle volontarie, ma a rischio di ridicolo, del Frankenstein di Branagh (1992). Lontano da Scorsese, De Niro, diventato ad inizio anni Novanta produttore con la sua Tribeca, ha cercato di rivedere la propria immagine, ripensandola in territori inesplorati (la comicità, il dramma retorico), ma confermando e peggiorando la propria attorialità. Ora De Niro è attore/autore di se stesso, ma le sue manie gigionesche e il suo corpo imponente, diretti da sconosciuti o non troppo abili artigiani (il Joel Schumacher di Flawless, 1999), non riempiono più l'inquadratura: al massimo la ingolfano.


A scorrere la filmografia degli ultimi anni, con l'eccezione di Ronin (John Frankenheimer, 1998), è dai tempi di Jackie Brown (Quentin Tarantino, 1997) che De Niro non azzecca un film. Se poi si considera che, per quanto straordinariamente stralunata, la parte del catatonico psicopatico Luis è da comprimario, allora è dal 1995, l'anno di due capolavori come  Heat di Michael Mann e Casino, che non è protagonista in un grande film. Otto anni sono tanti, per di più se passati a sbagliare un film dopo l'altro, e sono proprio queste ultime due apparizioni ad aver sancito la gloria e insieme la fine della sua carriera.


Nel film di Mann, che prende di petto la classicità tutta, De Niro è il ladro opposto al poliziotto Pacino in una molteplice sfida a chi sopravvive, a chi occupa più spazio nell'inquadratura e nell'immaginario collettivo. De Niro perde, perché è il mito dell'eroe solitario e integro ad aver già perso, ma nell'inquadratura in cui, morente, è soccorso dalla sua controparte Pacino, un carrello verso l'alto chiude il film e abbandona alla loro solitudine gli ultimi due eroi del cinema americano. E in un'altra immagine conclusiva, quella di Casino, è De Niro stesso a pronunciare le parole d'addio migliori, le parole di chi, come succede nel film, è sopravvissuto alla propria immagine e ora, a sessant'anni, può permettersi di fare ciò che vuole. "E questo è quanto" dice Asso nell'ultima immagine del film: in primo piano, vecchio, coi capelli grigi, sereno ma senza più moglie e amici, si toglie gli occhiali e guarda fisso nel vuoto di un futuro senza più sorprese.


 

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