SPECIALE THE WALK – Robert Zemeckis: il regista sul filo

The Walk è il film più autobiografico di Robert Zemeckis? E se tutta la sua carriera fosse una passeggiata su un cavo sospeso tra l’ossessione di uno spettacolo idealizzato e il sentimento dell’umano?

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La carriera di Robert Zemeckis copre un arco di tempo che ormai sfiora i quaranta anni e a partire da I Wanna Hold Your Hand del 1978 conta diciassette lungometraggi da regista. L’idea che sia proprio il protagonista dell’ultimo film ad essere la testimonianza del suo percorso va almeno giustificata e non basta sostenere che il racconto in prima persona di Joseph Gordon-Levitt sia una confessione al pubblico sulle sue motivazioni. The Walk è la storia di un funambolo che vuole stupire il mondo con uno spettacolo totale e il suo pensiero sul rapporto di onestà con il pubblico può essere interpretato come la condivisione di un’etica e di una pratica nell’ambiente comune dell’esibizione. Un riavvicinamento storico se si pensa che il carretto del cinema ha imparato sin dalle sue origini a dividere il suo spazio con quello dei maghi e delle attrazioni da circo prima di abbandonarlo per cercare la sua strada di intrattenimento nobile. L’eroe porta sempre con sé un filo e ogni volta che si trova un luogo interessante lo tende tra le dita per immaginare il suo palcoscenico in un rapporto molto stretto con la scenografia e la platea. E’ lo stesso processo che fa il regista quando visualizza un’inquadratura sul set e si domanda se può funzionare…

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the walkLa lista dei film di Robert Zemeckis è molto stratificata ed è difficile trovare un filo conduttore ben preciso: è iniziata con una devozione per la commedia che si è protratta nel primo decennio ed è stata animata da una certa sfumatura nostalgica. Il suo esordio rievoca il tempo della prima esibizione dei Beatles a New York e trova il salto all’indietro definitivo con Back to the Future del 1985. Lo straordinario successo di Who Framed Roger Rabbit? del 1988 non ha impedito un disinvolto passaggio alla fantascienza con Contact del 1997 e al thriller con What Lies Beneath del 2000. Il grande racconto americano di Forrest Gump del 1994 è uno spartiacque che non divide in modo netto la sua produzione e toglierebbe visibilità ad altre strepitose eccezionalità come Cast Away del 2000 e Flight del 2012. La presenza di una black comedy con Death Becomes Her del 1992 nasconde il suo animo meliesiano che si è consumato esplicitamente nella trilogia del performance capture. Un trittico di film che è iniziato con Polar Express del 2004 ed è continuato aprendo l’ennesima parentesi del racconto epico con Beowulf del 2007. Il finale di A Christmas Carol del 2009 non si è negato una fuga verso una rielaborazione del grande classico dickensiano.

Un repertorio così disordinato non fa altro che alimentare la sua somiglianza con il suo ultimo eroe. La confusione del materiale a disposizione fa pensare che stia ancora inseguendo un’idea di cinema per tentativi: come se avesse solo una visione ma non una definizione completa. La perfetta identità tra i due potrebbe ravvisare nel momento in cui il protagonista ricorda di essersi imbucato in un tendone del circo e di aver ammirato per la prima volta gli uomini che camminavano sul filo. Le memorie del regista raccontano di un bambino che davanti alla televisione trovava il suo rifugio e questo dettaglio potrebbe assolvere la sua apparente assenza di lucidità. Il funambolo ha un’epifania davanti alla fotografia delle Twin Towers ma ha il vantaggio di avere soltanto un’immagine fissa che lo tormenta fin dall’infanzia. Il cineasta è cresciuto con i film e i primi serial e la sua scena primaria va condivisa con i cartoni animati e la grande stagione dei matinee di sci-fi. I contorni della sua ossessione sono un patchwork in cui ogni parte è essenziale e non deve essere trascurata. Il suo film ideale è certamente un never-seen-before: deve essere realizzato con l’ultima tecnologia a disposizione e in un formato mai usato. E’ altrettanto prioritario che sia visto con gli occhi di un bambino e abbia il suo senso innocente dell’umano.

joseph gordon-levitt in the walkI sentieri del suo cinema seguono un percorso tortuoso ma si magnetizzano sempre intorno a queste due polarità: la fascinazione del trucco e dello spettacolo e il rimpianto per un’ingenuità perduta nel passato. I suoi film hanno sempre tentato di mettere un cavo di comunicazione tra queste due torri e Robert Zemeckis ha sempre cercato di camminarci sopra. Una ricerca di equilibrio e di sintesi che è costata sacrifici e non è stata esente da rischi: il regista ha deciso di avventurarsi proprio quando era faticosamente arrivato all’apice della fase lineare della sua carriera. Uno sforzo encomiabile visto che la sicurezza economica e il prestigio della sua firma sono stati acquisiti dopo un decennio di anonimato nel contesto hollywoodiano. I suoi primi tentativi furono un disastro al box-office nonostante il patrocinio di Steven Spielberg e il tentativo di ripagare il credito con il copione di 1941 fece persino peggio. Il film fu un rumoroso flop dopo i trionfi di Jaws del 1975 e di Close Encounters del 1977 e prima di quello di Riders of the Lost Ark del 1981. Il fortunoso successo su commissione di Romancing the Stone del 1984 gli permise di rimettersi in pista e di avere la fiducia necessaria per realizzare Back to the Future. L’intercessione del suo influente mecenate fu decisiva ma fu proprio il trionfo delle avventure temporali di Michael J. Fox e di Christopher Lloyd a convincerlo a spezzare il suo lungo sodalizio con Bob Gale.

joseph gordon-levitt e charlotte le bon in the walkL’interruzione del rapporto professionale non fu il primo passo della sua passeggiata ma l’evoluzione naturale per un cineasta che fino a quel momento era stato soprattutto uno sceneggiatore. Il grande exploit della sua saga di viaggi nel passato e nel futuro lo aveva reso popolare ma era il risultato di un elaborato lavoro di scrittura. Le scelte appropriate erano una questione di dialoghi e di situazioni ma trascuravano l’elemento spettacolare: una condizione che inevitabilmente gli andava stretta. Robert Zemeckis non ha più fatto commedie particolarmente divertenti ma ha fatto film più grandi per concezione e ha mantenuto un legame con il suo vecchio partner che si riscontra nel modo in cui i fifties ricorrono nel suo cinema. Forrest Gump è un film che attraversa la storia della nazione con la soggettività di una persona che non è mai cresciuta ed è rimasta agli insegnamenti basilari ed efficaci dell’ottimismo eisenhoweriano di sua madre. Il trucco gli ha permesso di far rivivere le icone di quell’epoca nella grottesca festa dei sempre giovani di Death Becomes Her ma è stato il progresso degli effetti digitali di farli partecipare direttamente con i suoi personaggi. La scena è un raro esempio di sintesi perfetta di una suggestione che è partita quando all’inizio si accontentarono di far incontrare Nancy Allen con le ombre e l’accento inglese dei Beatles.

Il vero primo passo della sua impresa è stato quello di lasciare la mano paterna di Steven Spielberg. La portata di questa decisione va analizzata alla luce di due aspetti fondamentali. Il primo è che il distacco avviene dopo l’incredibile successo di un esperimento come Who Framed Roger Rabbit? Il film è un brillante passaggio tra la nostalgia dei suoi esordi e il prodigio di un’inedita e perfetta interazione tra l’attore in carne ed ossa e l’animazione. L’ambientazione noir dell’investigatore privato e il mondo colorato di Cartoonia anticipano di qualche anno l’ossessivo ricorso al blu-screen e spinge verso l’abbandono del disegno. La ricerca dell’indipendenza è stata una scelta molto più rischiosa perché era stata fatale a molti altri registi che erano stati lanciati dalla Amblin. La carriera di Joe Dante è precipitata dopo Gremlins e dopo Innerspace e quella di Chris Columbus ha ceduto alla tentazione del trionfo prima del traguardo. La rinuncia ad un patronimico così importante è stato l’accantonamento di una rete di protezione. Robert Zemeckis decide di accettare il rischio invece di essere ricordato come un figlioccio e di dover dividere il merito con qualcun altro..

La figura di Steven Spielberg ha diversi punti in comune con quella dell’iniziatore di The Walk. Il suo ruolo di maestro contiene nello stesso momento l’ambizione dell’allievo di superarlo. Il loro percorso è stato parallelo soprattutto nell’attenzione alle prospettive che i pixel potevano offire alle loro idee. I film di Robert Zemeckis sono stati spesso uno studio di come il lavoro di Who Framed Roger Rabbit? poteva essere implementato. Il ringiovanimento della mano di Meryl Streep in Death Becomes Her è un momento banale solo per un pubblico che ormai ha assimilato il morphing come uno strumento ordinario. Il film è invece un saggio in cui la complicata resa del lattice viene messa definitivamente in soffitta. L’invenzione della Industrial Light & Magic di George Lucas è stata la folgorazione che ha animato la sua produzione nei ninties e si è perfezionata fino a cancellare le gambe di Gary Senise in Forrest Gump. L’uso insistito di questa tecnologia anche in un contesto apparentemente classicheggiante come l’esperimento hitchcockiano di What Lies Beneath dimostra che il racconto è un elemento complementare alla sperimentazione. Una relazione che Robert Zemeckis non è riuscito sempre a controllare e a bilanciare: come se il suo film ideale fosse ormai all’orizzonte e gli avesse fatto perdere di vista il pericolo della sua posizione.

una scena di the walkLa sua decennale infatuazione per il performance capture ha avuto degli eccessi che sono naturalmente sfociati nell’ostinazione. La colpa di Robert Zemeckis è stata quella di non capire fino in fondo che la digitalizzazione non potrà mai essere totale e che il cinema non potrà mai fare a meno dell’attore. La Dreamworks e la Pixar hanno compreso che l’animazione ha bisogno di una forte caratterizzazione umana e che le forme di poliedri devono essere fortemente antropomorfizzate. Cast Away era stata una lezione magistrale in questo senso ed era sembrato strano che proprio il cineasta l’avesse dimenticata. La presenza di una sfera perfetta come Wilson ricorda molto i primi esperimenti di John Lasseter come Luxo Jr. in cui gli oggetti hanno comportamenti riconoscibili. L’attribuzione di sentimenti e di anima ad un pallone è un riflesso kulesoviano che deve essere attribuito alla totale immedesimazione dello spettatore con la solitudine del naufrago Tom Hanks. Il performance capture deve essere un’integrazione ed è impossibile fare un film in cui la mimica facciale e il riconoscimento del pubblico viene continuamente occultato invece che valorizzato. Robert Zemeckis si è dovuto rassegnare all’idea che la grafica manca di profondità ed è come l’allegria perenne di Cartoonia in Who Framed Roger Rabbit? La spalla alla Looney Tunes di Bob Hoskins non può capire il suo lutto perché sa soltanto ridere…

joseph gordon-levitt in the walkUna delle premonizioni di Michael J. Fox nella Hill Valley del 2015 lo sorprende davanti al cinema della principale piazza della cittadina. Il cartellone annuncia il coming soon di Jaws 19 e lo presenta in un fantomatico formato Holomax in cui lo squalo esce dallo schermo. La satira sulla pratica del sequel a cui Back to the Future Part II del 1989 si era piegato tradisce la sua idea che il cinema aspetta un’invenzione in grado di rivoluzionare la percezione del cinema. Un prodigio che non riguarda soltanto la fruzione ma è inerente soprattutto alla produzione e alle possibilità di costruire delle storie: come il codice tridimensionale con cui gli alieni mandano il progetto della macchina spaziale in Contact. Il pensiero di Robert Zemeckis è che una simile scoperta cambierà non solo il cinema ma soprattutto il suo lavoro. The Walk sembra essere un momento decisivo in questo senso: il 3D e l’IMAX sono sempre stati utilizzati in relazione alla profondità di campo o all’effetto di sfondamento. Un legame con il progresso che ricorda la teoria di Marshall McLuhan dello specchio retrovisore: l’innovazione viene sempre concepita come una miglioria di uno stumento preesistente. Robert Zemeckis cerca di sfruttare tutti i vettori dell’inquadratura e si concentra sulla sensazione nuova della vertigine…

Il raccondo del funambolo è una dichiarazione teorica sulla sua personale ricerca dell’equilibrio e su come sia difficile fare una recita. François Truffaut paragonava la lavorazione di un film al pericolo costante del viaggio di una diligenza in un western. La passeggiata di Robert Zemeckis non smette mai di dichiarare come questo rischio sia divertente e il mancato raggiungimento della sua meta sembra essere persino una scelta personale. La ripetizone della recita è l’elemento più sorprendente dell’esibizione di Joseph Gordon-Levitt che sarebbe rimasto sul suo filo sospeso nel vuoto tutto il giorno se non ci fosse stata la polizia a minacciarlo. Il conseguimento di un obbiettivo pone fine anche alla magnifica ossessione del progetto e probabilmente a quel punto ucciderebbe anche lo stimolo di fare un nuovo film. Ed è evidente che il cineasta non smetterà mai di andare avanti ed indietro almeno fino a quando i piedipiatti hollywoodiani glielo permetteranno…

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