Rock the Kasbah, di Barry Levinson

Un film che sembra esplorare mille direzioni, senza centrarne appieno nessuna. Levinson lascia il personaggio, tutti i personaggi da soli. Perciò tutto sembra incepparsi, procedere a scatti

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Richie Lanz è un manager musicale spiantato e, in fondo, rassegnato alla mediocrità. L’unica cantante che gli dà qualche speranze è Ronnie, che però non ha ancora trovato la strada giusta. E la grande occasione per svoltare arriva nel modo più inaspettato: un tour in Afghanistan per le truppe americane. Richie sembra entusiasta, per quanto entusiasmo possa ormai provare, e trascina con sé a Kabul la sua riluttante pupilla. Ma gli esiti saranno disastrosi. Ronnie scapperà via subito, portando con sé soldi e passaporti. E Richie si trova incastrato in Afghanistan, con un debito di mille dollari sulle spalle. Ma è solo l’inizio di un’avventura decisiva.

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Ispirato alla storia vera (come puntualmente specificato in apertura, per meglio suffragare la finzione) di Setara Hussainzada, giovane donna “rea” di aver sfidato la morale tradizionale per aver cantato e suonato alla trasmissione Afghan Star, Rock the Kasbah è un film che sembra esplorare mille direzioni, senza, forse, centrarne appieno nessuna. È un’avventura picaresca in un mondo estraneo, che diviene, per magica opposizione, lo specchio di un Occidente che non ha regolato i conti con le sue falsità. È un inno transnazionale alla libertà d’espressione, che però si incanala in modelli puramente commerciali che dettano la linea delle forme. Ed è, poi, se non soprattutto, il percorso di un uomo che deve ritrovare il senso della propria passione e, quindi, della sua vita.

 

Nel personaggio di Richie Lanz, con la sovrastruttura di innocue menzogne che ha messo in piedi (Madonna l’ho creata io), si riconosce tutto il discorso portato avanti da sempre da Levinson. Quello di una macchina spettacolare che crea la realtà, stritolandone però i barlumi di verità e le scintille davvero creative. Di uno scintillio organizzato che abbaglia e chiude gli occhi, rimandando all’infinito il momento della “resa dei conti”. Eppure nella vita di Lanz non c’è davvero nulla di scintillante: c’è la vita minuta trascinata ai confini dell’impero, c’è la monotonia del lasciarsi andare, la solitudine della ripetizione tranquillizzante. C’è un’umanità dolorosa che non trova espressione, se non quella degli occhi e del corpo. Ed è proprio a quest’umanità che si aggrappa Bill Murray, con la sua faccia da vecchio leone in ciabatte, da comico in dismissione, con il suo stanco entusiasmo da attore “consumato”. Perché intuisce che solo nella modulazione progressiva delle emozioni del suo personaggio, nel viaggio di quest’eroe malconcio, il film può trovare il cuore più profondo. More than this, you know there is nothing. Al di là del discorso “politico” di superficie (geopolitico?), al di là delle letture più o meno lucide sullo spaesamento dell’anima di una nazione e la globalizzazione appiattita dei gusti. Eppure a Levinson è questo discorso che interessa più di ogni altra cosa. O così almeno pare. Perciò lascia il personaggio, tutti i personaggi da soli. A scontare le loro dannazioni e a vivere i loro ardori. Perciò il film sembra incepparsi, procedere a scatti, senza ingranare mai. Bill Murray fa il suo, ma per il resto sembra tutto accessorio: Kate Hudson, Bruce Willis che ha le potenzialità di una comicità esplosiva rinviata a data da destinarsi (ahinoi), Zooey Deschanel (che infatti scompare dopo pochi minuti), la scorrettezza di Danny McBride, lo stesso script buonista di Mitch Glazer. E alla fine di Levinson, del “suo” film, non rimane che la superficie edificante, quella da cui sarebbe dovuto partire per arrivare al fondo. Di Rock the Casbah dei Clash non resta che una vaga allusione. Nessun punk. C’è solo l’anima ecumenica di Cat Stevens Yusuf Islam. E, con tutto il rispetto, non è la stessa cosa.

 

Titolo originale: Id.

Regia: Barry Levinson

Interpreti: Bill Murray, Kate Hudson, Bruce Willis, Zooey Deschanel, Leem Lubany, Arian Moayed, Scott Caan, Danny McBride

Distribuzione: Eagle Pictures

Durata: 100’  

Origine: USA, 2015

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