RoFF 20 – Dobbiamo tornare all’umano, all’empatia, all’odore. Intervista a Giorgio Diritti
Abbiamo incontrato il regista bolognese per parlare del suo ultimo cortometraggio L’ascolto, presente ad Alice nella Città: venti illuminanti minuti sui disagi delle giovani generazioni
“Come è stata la tua settimana?” “Come al solito, mi ha portato il nonno perché la mamma non poteva“. Stride come una nota dissonante o come il suono in una scala più alta del previsto, questo primo scambio nello studio di Emma (Orietta Notari), psicoterapeuta dell’infanzia e dell’età evolutiva, e Marta, paziente della professionista. Non tanto per l’evidente sfasatura comunicativa del discorso, quanto per il fatto che setting e domanda hanno per protagonista una bambina di all’incirca otto anni, chiamata inoltre di lì a poco a dare, sotto forma di un gioco con pupazzi e sabbia, un tentativo di spiegazione al suo disagio. L’ascolto è infatti il nuovo cortometraggio di Giorgio Diritti, terza tappa di riflessione – dopo Zombie e In famiglia – sulla difficile condizione delle giovani generazioni, la loro solitudine e le difficoltà di crescere nella società odierna. Presentato ad Alice nella Città nella sezione Onde Corte – Proiezioni Speciali, l’ultimo lavoro del regista bolognese compie nell’arco dei suoi venti minuti un breve ma significativo viaggio nei modi di stare al mondo più problematici che bambini e adolescenti possono trovarsi a vivere. Così ne L’ascolto, aiutati dall’empatia di Emma che li invita ad aprirsi per accogliere anche i loro rifiuti (la passivo-aggressività del ragazzo orgogliosamente arroccatosi nel videogioco del suo smartphone), vediamo alcuni dei loro problemi prendere forma verbale: un miserevole atto di bullismo, il rifiuto di socializzare con le proprie coetanee, l’incomprensione di una madre verso la propria bambina “testarda, arrogante, capricciosa”. E partiamo proprio dalla scena che chiude il corto per chiedere a Giorgio Diritti di riflettere insieme a noi sull’importanza di questa sua ultima fatica
Volevo partire dalla fine di L’ascolto per cercare di tracciare uno dei possibili sensi e aperture di questo tuo piccolo ma importante cortometraggio: quando la mamma di Adelaide davanti alla propria figlia riassume la motivazione che l’ha portata nello studio di una psicoterapeuta dell’infanzia con l’orrendo “è una disgrazia, io non so perché ci è capitato a noi”, è evidente che il primo problema sia innanzitutto comunicativo e soprattutto di empatia. Come mai ha scelto di chiudere così?
In un corto dove fino ad allora erano stati presenti solo i bambini e un’adulta in posizione più laterale – dato che sono i bambini ad essere i veri protagonisti senza che me ne voglia la psicoterapeuta (ammicca sorridendo a Orietta Notari, presente all’intervista e che conferma la sua tesi con un cenno del capo complice NdA) – mi sembrava giusto che ci fosse anche un genitore. Io credo che la mancanza di comunicazione che dicevi dipenda proprio da un certo atteggiamento che a volte i madri e i padri hanno nei confronti dei figli, quando magari non rispondono ai loro desideri. Come se fossero beni di consumo, ecco che si sentono liberi di apostrofarli con espressioni orribili che indicano, secondo me, assenza di attenzioni naturali, come quelle che magari gli animali hanno nei confronti dei loro cuccioli. All’inizio, in fase di scrittura, c’erano addirittura dei padri che abbiamo poi buttato giù e abbiamo lasciato soltanto questa madre. Spesso sono proprio i genitori ad alimentare il disagio e le insicurezze dei minori perché fanno mancare il dialogo con loro, come dimostra infatti il fatto che la silenziosa Adelaide parli solo con Emma che invece era stata in grado di ascoltarla.
Come nasce il progetto di L’ascolto? Cosa ti ha spinto per la terza volta a tornare su un mondo come quello dell’infanzia e dell’adolescenza che in un occidente sempre più anziano rischia di venire ancora più marginalizzato?
L’evoluzione negli anni ha portato a un periodo storico in cui adolescenti e bambini sono troppo relativizzati, troppo spesso vittime delle proiezioni dei genitori ma anche comodamente parcheggiati davanti i loro tablet e telefonini. Questo ovviamente non vale per tutti, però c’è una forte mancanza di amore come ho potuto vedere dalle letture ma anche dalle tante chiacchiere che ho fatto su questo argomento. In questo lavoro di preparazione è emerso che c’è un bisogno di riconoscimento reciproco che consiste nel dare un tempo di ascolto vero, ampio, sereno che non sia soprattutto funzionale a qualcosa. La differenza principale, secondo me, sta proprio in questo, nel vivere le cose con autenticità senza l’obbligo di ottenere necessariamente qualcosa: non solo fare i compiti, andare a scuola ma parlare per il puro gusto di farlo o dare ai figli lo spazio per esprimersi. Dobbiamo tornare all’umano, all’empatia, certe volte mi viene da dire all’odore.
Tornando proprio ai bambini che appaiono nel tuo corto, tra le tante situazioni che, lo dico io da recensore, sono solo parte di una casistica che non vuole naturalmente essere onnicomprensiva, mi ha colpito il ragazzo che si trincera dietro lo smartphone e al suo videogioco. Non solo per l’ovvia critica che si può desumere dall’uso smodato ma anche perché la psicoterapeuta prova a capire l’orgoglio del giovane che dichiara con enfasi di volersi rinchiudere nel suo “grande mondo”, come se fosse in realtà un invito all’apertura
Assolutamente. Il problema sta nell’interruzione della comunicazione, della relazione, nella distanza e non nel contrasto. È normale e sano che nell’adolescenza questi bambini cresciuti diventino conflittuali con i genitori o abbiano problemi di inadeguatezza ma se c’è un dialogo, in qualche modo, si riesce ad avere un’evoluzione o un superamento dell’ostacolo. Quello che serve soprattutto è il reciproco riconoscimento affettivo: una delle cose che a mio avviso si è dimenticata nel tempo dell’efficienza è la capacità animale dell’essere vicini, coccolarsi etc. che non vuol dire non mettere i paletti dove servono ma superare la freddezza con cui, ad esempio, i ragazzi che ho sentito io mi raccontavano dei loro genitori.
E dato che siamo a un festa del cinema: stai lavorando a un film o, prendendo spunto dalla presenza di Orietta Notari qui vicino, magari a qualcosa di teatrale?
A teatro sarebbe bellissimo, ho fatto qualche cosa molti anni fa e di cui sento nostalgia. Per il cinema sto lavorando su un paio di progetti: uno, in particolare, riguarda la fascia di giovani uomini e donne che si devono affacciare nel mondo del lavoro. Però sono attivo, non sono andato in pensione!





















