ROLLING STONES – jumpin' on the movies
Il cinema non ha tardato molto per accorgersi dei Rolling Stones. Per le caratteristiche maggiormente rock, proletarie e arrabbiate della loro musica, rispetto a Beatles, è stata la forma documentaristica a diventare il loro modello più congeniale. Con almeno due capolavori devastanti: Sympathy for the Devil/One plus One e Gimme Shelter
L'aver compiuto 50 anni di piena attività ha reso i Rolling Stones la rock band più longeva e celebrata (assieme ai Beatles) della storia della musica. Cinquant'anni costruiti su hit immarcescibili come Satisfaction, As tears go by, Under my thumb, Paint it black, Jumpin' Jack Flash e almeno un'epoca – quella dal '69 al '74 – di dischi straordinari (Let it Bleed, Get yer ya-ya's out, Sticky Fingers, Exile on main street, Goats Head Soup). Come è accaduto per i Beatles, il cinema non ha tardato molto per accorgersi delle potenzialità mediatiche e artistiche del fenomeno Stones, ma rispetto al quartetto di Liverpool il destino cinematografico del gruppo inglese non ha condiviso le stesse fortune commerciali. Di certo i Rolling Stones, a differenza di Lennon & co., non hanno avuto il loro Richard Lester (A hard day's night, Help!). E' mancato insomma un cineasta che sapesse prenderli sotto la propria ala e condensare documento musicale e fiction nella formula anticonformista di un prodotto al contempo generazionale e di successo. Ma è probabile che questa formula neanche interessasse troppo gli autori di Ruby Tuesday. Forse per le caratteristiche maggiormente rock, proletarie e arrabbiate della musica stonesiana è stata la forma documentaristica a diventare il modello più congeniale alle loro incursioni cinematografiche.
E seppur in modo controverso è proprio nel decennio sessantesco che contiamo almeno due indiscutibili capolavori sul "genere". Il Sympathy for the Devil/One plus One di Godard è ancora oggi probabilmente una delle più lucide riflessioni politiche sul '68 e le sue ambiguità ideologiche, artistiche e merceologiche. Un non-film sugli Stones in cui il padre della
Il capolavoro è lucidissimo, ma lo shock per i palati meno intellettuali altrettanto imponente. Meglio affidarsi al più convenzionale concert movie e un anno dopo – quello di Woostock – l'occasione giusta sembra essere quella dell'atteso concerto americano di Altamont nel dicembre '69. Dovrebbe essere il tentativo da parte degli Stones di entrare a far parte definitivamente di quella mitologia hippie che fino a quel momento sembra aver suscitato un interesse tangenziale. Ad Altamont però finisce male. Il sogno della controcultura viene affossato definitivamente dalla droga consumata in dosi massicce tra gli spettatori e dalla violenza degli Hell's Angels, follemente ingaggiati come guardie del corpo della manifestazione. Anche Altamont, come Woodstock, è Storia. Ma è la parte oscura di questa. Ci scappa il morto: Meredith Hunter, accoltellato da un angel mentre impugnava una pistola (forse brandita per difendersi dai pestaggi o forse indirizzata verso lo stesso Jagger). Tutto questo delirio viene immortalato da David e Albert Maysles nel secondo (e forse ultimo) capolavoro cinematografico sulla band. Gimme Shelter rivisto oggi ha una potenza simbolica e una forza stilistica sorprendenti. e Mick Jagger in moviola che rivede la scena della morte in diretta mette i brividi e fa impallidire mezza real tv contemporanea.
Da questo momento in poi attraversare la filmografia dei Rolling Stones non è troppo diverso dal rimanere estasiati dai medesimi riff chiatarristici di Keith Richards. Dopo il doppio shock metacinematografico/sperimentale di Godard e Maysles si cerca la normalità. Le operazioni Rock 'n Roll Circus e The Stones in the Park tendono soprattutto a recuperare musica e afflato promozionale. Lo stesso vale per il parzialmente deludente Let's spend the night together di