Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story, di Martin Scorsese

È un memorabile gioco di prestigio, con Méliès, che compare all’inizio e alla fine della “festa”, di questa commedia dell’arte musicale. Su Netflix il racconto del celebre tour dylaniano di metà ’70

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Non credo possa essere ancora una sorpresa, trovare così devastante Martin Scorsese documentarista. Quattordici anni dopo No Direction Home (sempre sul menestrello, nel quinquennio 1961/1966), dopo The Blues del 2003, ad esplorare il genere del diavolo e con Shine a Light (2008) sugli Stones, ecco riconfermarsi maestro assoluto del binomio doc/musica. Sarebbe fantastico rimescolarlo con il Diario del Rolling Thunder di Sam Shepard o con i live dello stesso periodo, un doppio Bootleg Series del 1975 e Hard Rain del 1976. Ancora di più sarebbe incontenibile, nel vero senso della parola, caricarlo con le 4 ore circa dell’unico film da regista di Bob Dylan, Renaldo & Clara, realizzato con la complicità di Sam Shepard e Allen Ginsberg, il primo capace di comunicare con i morti e la criminalità della strada, il secondo a farsi oracolo di Delfi, estraneo ad ogni forma di potere, se non quella della poesia. Magari così avremmo attraversato la dimensione totalizzante del sacro, come colonna sonora della vita individuale e sociale. Avremmo raggiunto la radice della musica, il resto è il frutto.

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Ad oggi bisognerà accontentarsi, oltre questo splendido doc di Scorsese, dell’antologia in cd uscita il 7 giugno, cofanetto di 148 brani, di cui un centinaio mai pubblicati, oltre a foto inedite e un saggio del romanziere/musicista Wesley Stace. Gli spettacoli del leggendario tour duravano quasi sempre più di quattro ore, in piccoli teatri di 3000 posti. Dylan portava in scena le canzoni che aveva scritto per il suo nuovo album Desire, ma anche interpretazioni indimenticabili dei suoi brani storici ed alcune cover. Aveva chiamato a raccolta per l’occasione vari amici e riunito collaboratori straordinari in un team soprannominato “Guam” che comprendeva T Bone Burnett, Mick Ronson, Joan Baez, Ramblin ‘Jack Elliott, Bobby Neuwirth, Scarlett Rivera, Ronee Blakely, Steven Soles, David Mansfield, Rob Stoner, Howie Wyeth e Luther Rix. Oltre Allen Ginsberg e Joni Mitchell, che comparivano durante i bis.

Il capolavoro di Dylan fu quello di mettere insieme musicisti provenienti da vari background e sensibilità per trasformarli in un’unica entità musicale sul palco. Rolling Thunder Revue, è un gioco di prestigio, giusto Méliès, che compari all’inizio e alla fine della “festa”, di questa commedia dell’arte musicale? È forse il secondo film da regista di Bob Dylan, almeno idealmente, anche se di quella esperienza, a suo dire, non ricorda praticamente nulla e non gli è rimasto nulla, solo polvere. Fin qui tutto sembra comunque tornare. Ma la questione è un’altra. Chi sarebbe Stephan Van Dorp? Davvero è colui che ha girato tutte quelle immagini all’epoca ed ora chiede di essere riconosciuto dallo stesso Dylan? Davvero Sharon Stone è stata una groupie del tour durato quasi 2 anni, dal 1975 al 1976? Tutto questo, e molto altro, è davvero accaduto? Attraversando gli Stati, scavando nel profondo humus del Paese, scoprendo occhi e sguardi colmi di speranza, terrore, tutto questo non si può mistificare. Rolling Thunder in indiano significherebbe “dire la verità”, ma sarebbe anche il nome in codice del bombardamento alla Cambogia ordinato da Nixon. Vai a sapere…

Scorsese quindi gira un film di finzione con immagini di repertorio magistralmente recuperate. Paradosso. Quando indossi una maschera o imbianchi il volto come un mimo, solo allora dici sempre la verità, quando non lo fai è assai improbabile. Anche il pescivendolo di Bob Dylan in tour come promoter, tant’è che non c’erano impresari professionisti, produttori delle grandi major, tutto fu gestito da amici, conoscenti, in una forma moderna di autogestione. Dal punto di vista economico fu un flop, per spese di viaggi, catering, biglietti strappati, ma fu una grande avventura, probabilmente tra le più creative e stimolanti di sempre. Poi i Kiss, che se pur fossero state maschere kabuki, certo quelle reali maschere del teatro giapponese non avrebbero mai sputato sul pubblico. Ecco, certi giorni sembrava tutto un’allegoria, un gruppo di pellegrini, in una sorta di viaggio, come una missione, per trovare se stessi e tornare a casa. Poi, ad un certo punto del viaggio, ci si apriva all’America e al mondo culturale folk, in una vera e propria redenzione: “Abbiamo un’America indaffarata a nascere, non a morire”. Anche se ormai tutti i criminali in giacca e cravatta sono liberi di bere Martini e guardare l’alba…

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