#RomaFF10 – Corri ragazzo laggiù. Santamaria, Marinelli, Mainetti e il loro eroe
“Pur girando una favola urbana con i superpoteri, è un film profondamente italiano attento a raccontare un ambiente come quello di Tor Bella Monaca”. La conferenza stampa di Lo chiamavano Jeeg Robot
Ci sono voluti cinque anni di gestazione per arrivare dal soggetto di Nicola Guaglianone all’opera finita, ma se Lo chiamavano Jeeg Robot vive della libertà che si respira all’interno delle immagini del film è anche grazie a questo lungo lavoro in prima persona di Gabriele Mainetti, produttore del suo stesso esordio “per forza di cose”, come racconta alla stampa che stamani all’Auditorium ha salutato la sua “opera di genere in punta di piedi” con un calorosissimo entusiasmo: “non essendo riuscito a trovare un produttore che volesse gettarsi nel progetto, mi ci sono dedicato con i miei tempi e la mia piccola esperienza. Per fortuna poi la distribuzione è arrivata subito, Lucky Red appena lo ha visto se l’è voluto accaparrare. Il sequel? Se questo episodio dovesse andare bene in sala, perché no!”
Le domande dei giornalisti vertono decisamente sull’aspetto del benvenuto tentativo di film di supereroi all’italiana, con Claudio Santamaria, ingrassato per la parte fino a raggiungere una stazza di 100 kg, che paragona il desiderio dell’uomo di credere alle figure sovrumane al nostro innato bisogno del contatto con il Divino (“il supereroe è in qualche modo un’immagine di dio”), ma a Mainetti sta molto a cuore affrontare il tema dell’ambientazione tra i casermoni e il cemento di Tor Bella Monaca: “un ambiente dal fascino irresistibile, che racconta perfettamente i nostri personaggi, in questo senso la violenza del film al di là della sua natura fumettistica, alla Dark Knight, ha una forte valenza di legame con la parte cattiva di Roma che volevamo mostrare. Pur girando una favola urbana secondo strutture lontane dalla nostra tradizione, credo d’aver fatto un film profondamente italiano per il dolore che esprime nei personaggi.”
Gli fa eco Luca Marinelli, apprezzatissimo per la caratterizzazione impazzita di un antagonista che ricorda davvero le nostre produzioni di genere di qualche decennio fa, lo Zingaro: “è un film profondamente romano, sul set non c’era solo il divertimento del dedicarsi con la massima fiducia del regista a dare vita a questi personaggi scritti magnificamente, ma anche la volontà di mantenere un livello di realtà di partenza, molte prove con gli attori per risultare sempre credibili, e un’esplorazione di una Tor Bella dove personalmente non ero mai stato.”
Legarsi alle fragilità e all’umanità dei personaggi ha guidato le loro traiettorie all’interno degli ostacoli tipici del film di supereroi piazzati all’interno della sceneggiatura, con un’attenzione per una tematica tutta contemporanea come l’ossessione per la visibilità e la popolarità in rete e sui social, che sfociava in sequenze anche poi rimaste fuori dal film, come quella dello Zingaro che si fa un selfie prima di rapinare il portavalori.
Ma alla fine dei conti, chiosa Santamaria, Lo chiamavano Jeeg Robot può anche definirsi semplicemente “una storia d’amore, ma con i superpoteri”.