#RomaFF10 – Eva no duerme, Pablo Agüero

Non si tratta della ricostruzione di un evento storico né di un trattato politico, ma piuttosto il tentativo di rileggere degli eventi incredibili attraverso l’esplorazione del loro senso ulteriore

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Tra gli incubi e i fantasmi della Storia. “Sono le 20:25, l’ora in cui Eva Perón è passata all’immortalità”. È il 22 luglio del 1952, quando Evita muore. E non è che un semplice passaggio, verso una vita più grande. Il suo corpo è imbalsamato dal dottor Ara ed esposto alla Segreteria del Lavoro, come in una cattedrale laica. Poi però, allo scoppio della Revolución Libertadora, nel 1955, viene deciso il trafugamento del cadavere, per evitare il culto popolare. A dar mano libera all’Operazione Evasione è il generale Aramburu, mentre, materialmente, a occuparsi del sequestro della salma e ai suoi continui spostamenti è il colonnello Moori Koenig. Ci vorrà molto tempo, fino agli anni ’70, per ristabilire in qualche modo gli equilibri violati. Alle porte di un’altra tremenda repressione. E difatti è proprio l’ammiraglio Massera, minaccioso e cupissimo, a dar via a questo incredibile racconto sul peso, la paura e il desiderio di un’eredità incancellabile.

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eva no duerme2Pablo Agüero dà finalmente forma a una sceneggiatura scritta e premiata nel 2012, passata anche in teatro. E non si tratta della semplice ricostruzione di un evento storico né di un trattato politico, pur essendo, in qualche modo, sia l’uno che l’altro. Eva no duerme è piuttosto il tentativo di rileggere degli eventi incredibili attraverso l’esplorazione del loro senso ulteriore, simbolico, emotivo e politico, appunto. Per questo tutto il film si sviluppa attraverso fasi distinte e una raccolta di momenti immaginari eppur decisivi: i militari che avanzano al potere (e che quasi sembrano venir fuori dai drughi di Arancia meccanica), una bambina che ammira il corpo di Evita, l’imbalsamazione, il dialogo tra Koenig e un giovane soldato, il sequestro e l’esecuzione di Aramburu (che avverrà per mano proprio di quella bambina). La storia, quella dei fatti che si sviluppano e si intrecciano nel tempo in una direzione conseguente, resta fuori campo, sta nei buchi, negli spazi morti della sceneggiatura. Forse perché già conosciuta, già narrata in mille modi, sviscerata, discussa. Il racconto, quindi, non serve. È come disinnescato. Si mostrano invece i momenti finora invisibili, quelli vissuti fuori dal pubblico, negli spazi stretti del mistero e dell’inquadratura. E Agüero, infatti, restringe quasi sempre il campo, tenendosi sui corpi, sui volti, tagliati dalle luci e le ombre della verità e della finzione. Quasi a voler dar vita a un film concreto, materico, fisico: le mani del medico che manipolano i piedi del cadavere, la lotta tra Koenig e l’aiutante, i colpi ricevuti da Aramburu. Eppure, nonostante ciò, tutti i personaggi sembrano solo e sempre fantasmi riemersi dalle ombre del tempo, pure apparizioni incidentali di una vicenda più grande di loro (nonostante i volti che vorrebbero incarnarli, Bernal, Lavant…). E perciò, Agüero si concede a tratti lo scarto evocativo, tra il lirismo del sogno e la frenesia dell’incubo, reso in uno stile forse a tratti troppo compiaciuto e spinto, ma comunque dal fascino innegabile. In fondo tutti sono funzioni, tipi e quindi simboli di qualcosa: l’imbalsamatore, il trasportatore, il dittatore. Per uno scherzo del destino, l’unica realtà in carne e ossa è Evita, quel suo “cadavere” che continua ad attraversare i tempi, che infiamma le passioni e alimenta le paure dei mostri, che lascia sognare la libertà e obbliga alla repressione. È il mito l’unica cosa davvero reale. Muerta o viva…

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