#RomaFF10 – Full Contact, di David Verbeek

Il discorso di Good Kill sul corpo separato dalla fisicità dell’azione è il punto di partenza per discendere nell’instabilità di un paesaggio interiore che proietta un’allucinazione dentro l’altra

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Una presenza svuotata di senso. Lo straniamento di Ivan, il Giudice, che pilota i droni di una guerra nella quale il corpo a corpo è sostituito da una deflagrazione vissuta a distanza, che non rimanda più indietro neanche il fragore dell’impatto, ma solo il silenzio del suo peso morale, ha la stessa desolazione di un paesaggio disumanizzato. Il chiarore spoglio del deserto Nevada è una trappola senza via d’uscita, senza spazio per gli affetti o il rimorso, che abbaglia lo sguardo e riflette la sua aridità esistenziale nelle linee asettiche di un appartamento dove l’ultimo segno vitale rimasto è solo la voce di Ivan, che cerca di dare carne e realtà ai pixel delle immagini delle sue vittime, ripetendone più e più volte il nome.
Il discorso aperto da Andrew Niccol sullo slittamento di senso imposto ad un corpo ormai separato dalla fisicità dell’azione è il punto di partenza attraverso il quale l’olandese David Verbeek, autore di R U There, discende nelle traiettorie instabili e frammentate di un paesaggio tutto interiore che, nel disordine etico creato da un errore militare e dalla presa di coscienza della propria incapacità relazionale, proietta un’allucinazione dentro l’altra. Più che voler essere, come Good Kill, riflessione teorica sulla centralità della visione, la trama di fantasmi ritornati e incubi paralleli che prende forma in Full Contact assomiglia “al viaggio di un morto che cammina” descritto da Adrian Lyne in Allucinazione Perversa. Ma se quello di Tim Robbins era il corpo di un reduce che porta scritto sulla carne gli effetti della guerra, quello che dell’ottimo Grégoire Colin è, al contrario un corpo senza più affetti e affezioni e per questo, come dice ad Ivan, al termine della loro breve relazione, la spogliarellista interpretata da Lizzie Brocheré, senza più verità, senza consistenza. Un corpo che scoprendo di non esistere, di esser solo un simulacro, finisce per mandare in frantumi il vuoto sul quale si tiene in equilibrio.
full contactNonostante la nettezza della presa di posizione politica rimanga il controcampo ben visibile dell’astrazione che va progressivamente curvando l’immagine, fino a disegnare una spazialità distorta che diventa puro riflesso di un movimento interiore che ha perduto ogni punto di riferimento, l’esplorazione simbolica degli universi immaginati da un corpo alla ricerca di una rinascita attraverso l’avvicinamento fisico ai fantasmi delle sue vittime, apre allo sguardo un labirinto visionario di grande impatto e rigore stilistico, capace di superare le strettoie del discorso a tesi, per far deflagrare sullo schermo, in tutta la loro violenza, le traiettorie di viaggio all’interno di un’umanità disorientata. Sprofondando l’immagine nello stesso cortocircuito del buio emotivo in cui si muove il protagonista di Full Contact, David Verbeek dissolve l’implacabile nettezza dei paesaggi del deserto del Nevada nelle ombre che tagliano violentemente il quadro e dentro le quali, in un’instabilità morale che si appropria della visione e ne diventa la forma stessa, continuano a sparire e a riemergere le presenze che, con le loro traiettorie scisse, abitano il film, mentre cercano di ricostruire, come nel magnifico allenamento in palestra per recuperare quel corpo a corpo negato, una presenza alla quale aggrapparsi per poter sopravvivere al nulla.

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