#RomaFF10 – Junun, di Paul Thomas Anderson

Quelli di Anderson sono sorprendenti segni di vita. E il “vizio di forma”, questa volta, diventa il cinema stesso: la vera nota comune. Il cinema che penetra la musica e crea un unicum estatico

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Junun. Il film-diventa-musica, e viceversa, l’immagine-diventa-nota, e viceversa, in un documentario che è anche backstage di un nuovo album, e viceversa, dove c’è il cinema felicemente (con)fuso tra la vita e la performance. Ci troviamo di fronte un oggetto indefinibile e diamantino, uno dei tanti misteri di Paul Thomas Anderson, uno dei suoi tanti fantasmi da scoprire al-di-là delle inquadrature. Iniziamo da qui: Jonny Greenwood (chitarrista dei Radiohead e autore delle colonne sonore degli ultimi tre film di PTA) si reca in India per incidere un nuovo album insieme al compositore/poeta israeliano Shye Ben Tzur e a un gruppo di musicisti del luogo. PTA è lì a catturare ogni sessione di prove (nel forte di Mehrangarh, un favolistico luogo fuori dal tempo) per trasformale in un unicum filmico teso a ibridare ogni linguaggio. Ciò che colpisce, allora, è proprio questa consapevole e affascinate dialettica tra composizione perfetta dell’inquadratura (mutuata dall’ultima parte della carriera di PTA) e l’immagine sporca e impressionista che aggredisce i corpi dei musicisti seguendone i pensieri e i moti istintivi. Il cinema sta cercando la sua composizione proprio come i musicisti cercano una nota comune che leghi il sound occidentale alla tradizione indiana (come non ricordare i simili esperimenti dei Beatles, in tutt’altra epoca?) e il film diventa un processo, un lento corteggiamento musicale che Anderson asseconda con i movimenti sempre in divenire del (suo) cinema.

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Junun vive costantemente dentro e fuori gli spazi, dentro e fuori se stesso, per trovare un ritmo comune che componga/configuri la performance giusta, il tempo giusto, l’assemblage definitivo. Cosa c’è di andersoniano in tutto questo? Beh, innanzitutto il potentissimo afflato spirituale che preme sulle inquadrature de-finendole in toto: è l’estasi comune che collima con la spiritualità di ogni singolo musicista e lega in un unico flusso Occidente e Oriente… la ricerca del sacro, insomma, da sempre cardine del cinema di PTA, diventa il cuore pulsante di questo straordinario esperimento filmato.

ptaL’immagine/musica evade da Mehrangarh. Gli uccelli fuori-e-dentro quelle mura sono inquadrati come strumenti che creino ritmo, inseguiti addirittura in cielo da un drone, quindi da una soggettiva-oggettivata che strania per il fascino perturbante. Anderson riesce a immaginare una comune spiritualità proprio nell’animalità di questi suoni, delegando poi all’immagine-volo tutto il portato estatico. E il film smargina, quindi, seguendo i musicisti che evadono per poche ore dal forte, creando improvvise e anarchiche peregrinazioni come vertoviani cine-occhi gettati nelle strade della città a disegnare i potenziali movimenti, le prove perenni, le melodie perenni.

Quelli di Anderson, insomma, sono sorprendenti segni di vita (vengono in mente all’improvviso, solo per pochi fotogrammi, gli echi di quel lontano capolavoro herzoghiano nel volo d’uccello sopra un castello…) e il vizio di forma questa volta diventa il cinema stesso. La vera nota comune. Il cinema che penetra la musica, la asseconda religiosamente per poi espanderla negli spazi, creare link, mettere in comune le note alle vite, gli strumenti ai volti, la performance alla quotidianità, superando di netto le barriere linguistiche e parlando solo col linguaggio universale dell’emozione declinata al presente. Ecco questo è un film sulle emozioni. Ferine, prime, scomposte e poi ricomposte in ogni singolo frame, in volo d’uccello o radenti il suolo, tra uno strumento tradizionale e un computer di ultima generazione, in un anfratto di una stanza o in un paesaggio sconfinato. È il ritmo della vita, sempre in divenire, catturato in un album o in un film, qui e ora, è Junun

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