#RomaFF10 – Room, di Lenny Abrahamson

Room tradisce l’intenzione programmatica di chi è interessato più a un risultato ecumenico che a un percorso cinematografico coerente. Cinema che baratta la sincerità con l’esposizione emotiva.

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A Jack, di quello che c’è al di fuori della Stanza, non interessa nulla. Per la sua vita di bambino appena arrivato alla fatidica età di cinque anni, quello che serve è contenuto nelle quattro mura che delimitano il suo minuscolo universo. Ci sono Cucchiaio Fuso, ottimo per mangiare, Letto dove dormire, il Serpente di Gusci d’Uova con cui giocare e soprattutto c’è Mamma, la sua mamma, l’unico essere umano con cui Jack condivide tutto, in un rapporto d’amore assoluto. La loro esistenza è contraddistinta da una fuga ansiosa dalla monotonia claustrofobica, dal bisogno umano di inventarsi la vita ogni giorno. Solo la minaccia incombente di Old Nick, l’uomo che ha le chiavi della Porta, convince Jack ad aiutare la sua mamma a scappare finalmente nello Spazio sconosciuto, il Mondo. Dopo una solida carriera nell’indie irlandese, Lenny Abrahamson (Garage, Frank) trova con Room il suo approdo sicuro in quel cinema americano sempre in equilibrio tra il mainstream hollywoodiano e il Sundance Film Festival, realizzando una pellicola fin troppo perfetta. Guardando apertamente ad alcuni tristi fatti di cronaca, la sceneggiatura di Emma Donoghue (autrice dell’omonimo libro) è, infatti, costruita come un meccanismo ad orologeria, dove ogni piccolo dettaglio trova la sua perentoria e giusta posizione. Persino la costruzione duale della storia, coming of age allucinato di un ragazzo selvaggio e della sua ragazza madre sopravvissuta e confezione astuta da fantascienza sui generis, tradisce l’intenzione programmatica di autori interessati più a un risultato banalmente ecumenico che a un percorso cinematografico coerente e rispettoso. In un’atmosfera che si muove tra la wildness primitiva e l’alienazione di un futuro post-atomico, dunque Room è Cinema che baratta la sincerità con l’esposizione emotiva ai limiti della tolleranza. L’ossessiva ostentazione del rapporto totalizzante tra madre e figlio, le interpretazioni talmente sentite da rasentare il manierismo (e il giovanissimo Jacob Tremblay che s’inserisce di diritto nella schiera dei piccoli “mostri” generata da Hollywood) e una narrazione attenta ad alzare comunque la posta in gioco (si arriva a inscenare un meccanismo che spinge il pubblico ad aspettarsi colpi di scena sempre più duri) sono solo alcuni dei mezzi usati da Abrahamson. Strumenti nelle mani di chi è desideroso di confezionare un giocattolo macina lacrime, ideale per confondere, in un trionfo di commozione telecomandata, gli spettatori costretti a cedere. Non a caso il premio del pubblico vinto a Toronto e l’accoglienza alla Festa di Roma sono, probabilmente, le prime gloriose tappe di un viaggio che porterà Room alle nomination all’Oscar (scontate quelle per gli attori e la sceneggiatura), per la vittoria (im)morale di un film emblema di un intero Sistema, oggettivamente perfetto e profondamente vuoto.

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