#RomaFF10 – Sinatra – All or Nothing at All, di Alex Gibney

Gibney, in fondo, racconta un’incarnazione, La progressiva trasformazione di un’icona, di un divo in uomo di carne, sangue e ossa. L’uomo nuovo plasmato dal fango dei ricordi e delle cose vissute

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La carriera e la storia di Francis Albert Sinatra, la Voce del secolo. I primi passi nel mondo della musica, tra orchestre, radio, la stella polare di Bing Crosby, gli studi di canto in cui imposta la sua tecnica da crooner. La determinazione perfezionistica e la fame di successo fino all’ascesa inarrestabile dei primi anni ’40, in cui diviene l’idolo delle folle, specialmente quelle femminili, che impazzivano per la sua voce e i suoi occhi. Comincia a costruirsi l’idolo, che sfugge persino alla guerra e all’odio dei soldati costretti al fronte, mentre le donne svenivano ai concerti. E poi la famiglia, il sogno della felicità perfetta. Fino all’amore che travolge, quello che lascia a pezzi. Ava Gardner lo abbandona e Sinatra è in crisi, l’alcool, la musica che non gira più. È il cinema a tendergli la mano, un’audizione a rotta di collo per Da qui all’eternità di Fred Zinnemann, la parte di Angelo Maggio, l’Oscar. La seconda vita: “lo aspettavamo per festeggiare, ma lui se ne andò via, a camminare da solo”, racconta la figlia Nancy… E poi l’invenzione di Las Vegas, il rat pack, la mafia e la politica, il successo ininterrotto, l’uomo che si fa spessore. E i nuovi amori, forse solo fantasmi, forse chissà. Fino alla decisione, inaspettata, di ritirarsi nel 1971, a cinquantasei anni. Un concerto d’addio, all’Ahmanson Theatre di Los Angeles, solo undici canzoni in scaletta. Ed è proprio a partire da quelle canzoni, dalle immagini di quella serata, Gibney costruisce il suo racconto di Sinatra. Nella convinzione che proprio quegli undici titoli, scelti tra una produzione enorme, stessero a raccontare un percorso, una storia personale… quasi fossero le tracce di un’inchiesta, una mappa del tesoro.

 

sinatra2Gibney ha, come sempre, la capacità di scavare nell’archivio, per trarne fuori tutte le linee possibili, le tracce segrete e le suggestioni. Raccoglie le testimonianze, ma affastellate nel tempo, come se la storia potesse prescinderne… persone che raccontano da dimensioni diverse, ma che rimangono pura parola che si mescola alla colonna sonora ininterrotta, in un arrangiamento che fa da supporto a The Voice. Se c’è l’immagine di qualcuno di loro, è solo persa nel tempo, tra vecchie foto e vecchi video. Ogni immagine è di repertorio, come le canzoni di un vecchio crooner, ma l’interpretazione è vissuta sul filo della passione

Perché, in un certo senso, Gibney racconta un’incarnazione. Sì, Sinatra è già di per sé un’incarnazione: il sogno (americano o meno) del ragazzo qualunque che si fa strada da solo, il successo perseguito sulla fiducia incrollabile del proprio talento, il figlio di immigrati che manda all’aria gli stereotipi fino a determinare, sempre a modo suo, la storia della nazione. Ma l’incarnazione che interessa qui è un’altra. La progressiva trasformazione di un’icona, di un divo determinato e persino metodico nell’inseguimento del suo fantasma e nella costruzione della sua immagine, in uomo di carne, sangue, ossa. Una specie di percorso di scoperta di sé, della sostanza profonda della propria natura e della propria arte. Come se, in qualche modo, la leggenda venisse riportata alla sua radice, alla verità di ciò che è nascosto al di là dello specchio oscuro. La verità… già. Magari fosse possibile ritrovarla osservando e ascoltando, pur nel fuoco incrociato dei racconti, delle testimonianze, delle immagini, delle canzoni eterne e di quelle andate a male. O anche, semplicemente, vivendo. Forse neanche Sinatra riuscirebbe, oggi, a cento anni dalla nascita e diciassette dalla morte, a dar espressione alla verità. A quella dei fatti, al limite… ma chissà se anche a quella dei sentimenti, delle emozioni troncate al culmine della felicità, delle cose non dette… “Non rispondo a questa domanda”, dice con i suoi vecchi occhi blu fermi e vivi, all’intervistatore che gli chiede del suo eventuale matrimonio con Mia Farrow. E probabilmente, non sarebbe che una versione, vissuta, sentita e cantata “in my way”. “Più invecchio e meno cose so”, avrebbe detto Sinatra, al volgere degli anni. Come se i ricordi di tutto e tutti si fossero radunati, confusi in un’unica materia indistinta e inscindibile, fino a dar forma all’uomo, a plasmarlo dal fango della periferia di Hoboken, dagli scintillii artificiali di Las Vegas, dalle luci del palcoscenico e dai mille riflessi sugli schermi.

 

La mafia resta un mistero, raccontato dal punto di vista di qualcuno per cui la lealtà viene prima della giustizia, il rapporto di amore e odio con i Kennedy. E le rabbie incontrollate, i lati del carattere più tremendi, ma anche le generosità disinteressate, l’impegno istintivo contro la segregazione razziale. E poi gli amori, speranze, delusioni, perdite, vittorie, rimpianti. Ciò che non è stato detto, quel mistero che regna in ognuno di noi, è solo sfiorato alla fine di queste quattro ore di documentario. Gibney da solo non ce la può fare. Può arrivare alla netta percezione della grandezza e dell’abisso. Per poi fermarsi. Per fortuna lo sorregge Sinatra, che passo dopo passo, anno dopo anno, canzone dopo canzone, rivela a sé e a noi qualcosa in più della sua versione, della sua verità dietro lo specchio. E noi siamo con lui, commossi da quella sua voce che sa sempre di casa e di Las Vegas, di purezza e passioni e di whisky e sigarette solitarie.

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