#RomaFF10 – Experimenter, di Michael Almereyda

Almereyda traccia un biopic molto fedele, attento alla vita privata del personaggio quanto basta per dargli qualche sfumatura intimista ma concentratissimo sulla questione scientifica

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Siamo a Yale nel 1961. Un impiegato, un venditore, una segretaria, una casalinga: ecco i cittadini medi che diventano improvvisamente attori in un esperimento universitario consumato dentro una stanza grigia e claustrofobica che sa tanto di rigidità burocratica. Siamo in piena Guerra Fredda, gli anni ’50 di McCarthy sono finiti da poco e l’America forse si scopre non meno violenta e oscuramente totalitaria delle dittature europee dei decenni precedenti. Il rispetto degli ordini e delle regole a prescindere dai principi morali dell’individuo è una condizione che accumuna il nazista Eichmann come l’uomo qualunque di una cittadina americana? Parte da questo dubbio il professore Stanley Milgram (un bravo Peter Sarsgaard) che invita i soggetti del suo studio a interrogare con risposte multiple una persona chiusa in una stanza adiacente. A ogni risposta errata devono mandare scariche elettriche con un voltaggio sempre maggiore. In realtà è tutto un trucco, il paziente non esiste e i suoi lamenti sono registrati. Ma queste semplici persone di tutti i giorni non lo sanno, soffrono, si fanno venire scrupoli morali eppure arrivano quasi sempre fino in fondo, non sanno opporsi agli “ordini” e proseguono per tutta la durata dell’esperimento a torturare lo sconosciuto. Il mondo negli anni si accorge di questo lavoro e Milgram cambia così per sempre l’approccio accademico in materia di psicologia comportamentale e antropologia, sebbene i suoi metodi vengano presto messi all’indice dalla stampa e dallo stesso mondo universitario. Passa da Yale ad Harvard fino ad avere finalmente una cattedra stabile alla New York University. Morirà per infarto nel 1984 dopo aver scritto saggi rivoluzionari sui conflitti della coscienza umana ed essere diventato una specie di star mediatica con apparizioni televisive e soggetti cinematografici ispirati al suo lavoro. Almereyda traccia un biopic molto fedele, attento alla vita privata del personaggio quanto basta per dargli qualche sfumatura intimista ma concentratissimo sulla questione scientifica. La prima parte dedicata al famoso esperimento di Yale è interessante perché sembra quasi riprodurre claustrofobicamente gli spazi angusti di una società dominata dal controllo. Sembra di stare in un thriller complottistico degli anni ’70. Poi l’aderenza all’opera e al pensiero di Milgram prende il sopravvento sul cinema e scopriamo Sarsgaard sostituirsi alla voice over e continuare per quasi tutta la durata del film a parlare direttamente alla macchina da presa interagendo con lo spettatore sulle idee e sugli eventi biografici del professore. Il film dopo un inizio affascinante diventa presto una lezione universitaria mai pesante o presuntuosa, ma certamente meccanica e inerte, che Amereyda cerca di ravvivare citando retroproiezioni in bianco e nero che fanno molto cinema classico anni ’50. Un po’ poco per funzionare davvero. Forse sufficiente per divulgare e illustrare una teoria.

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