#RomaFF10 – Ville-Marie, di Guy Edoin
Dramma polifonico che vede proragonista Monica Bellucci che resta sospeso a differenza di Crash dove gli incontri/scontri dei personaggi erano calibrati su un equilibrio perfetto
Ville Marie è il crocevia dell’esistenza, il luogo in cui la morte rincorre costantemente la vita, per chi lotta per sopravvivere alle ferite che gli sono state inflitte, e per chi non sopporta più il peso di quelle che si è auto inflitto, e tenta di soffocare il dolore con qualunque mezzo possibile per non sentire, almeno per un po’, il desiderio insopprimibile di morire.
In questo immenso ospedale della vita l’infermiera Marie Santerre lavora instancabilmente per espiare le sue colpe, e per riempire il vuoto che ha lasciato nella sua vita la morte del marito e l’allontanamento del figlio. Marie conosce tutti nell’ospedale e a tutti offre il suo conforto, soprattutto ai suoi amici ambulanzieri, come lei oppressi dal male di vivere e incapaci di perdonare se stessi.
Per lei non c’è vita fuori da Ville Marie, così come per l’attrice Sophie Bernard non c’è vita fuori dal set. Lo spazio scenico incornicia la storia della sua vita e i costumi pregiati la costringono nel ruolo di una borghese benestante, vittima del lusso e delle sue debolezze, che non riesce a spogliarsi della sua maschera di femme fatale così come della sua parrucca bionda perfettamente acconciata. Come Marie, anche lei ha messo un muro tra la sua esistenza e quella di suo figlio Thomas ed è incapace di interagire con lui, come madre oltre che come attrice, al punto che preferisce svelargli la verità sulla sua nascita attraverso il film che sta girando, piuttosto che guardandolo negli occhi. Le vite delle due donne scorrono una a fianco all’altra, a pochi isolati di distanza, senza sfiorarsi mai, fino al momento in cui un tragico incidente le porta entrambe a Ville Marie, a condividere il dolore fisico e spirituale che si consuma tra i corridoi dell’ospedale, e qui trovano il coraggio per affrontare i fantasmi del loro passato.
Ville-Marie è un dramma polifonico, un carosello di personaggi che si muovono e si scontrano senza mai vedersi tra le strade di una Montreal eternamente notturna, che ha chiuso le imposte davanti alla vita per rifugiarsi in un microcosmo apatico in cui i sentimenti non riescono a insinuarsi. In questa dimensione di solitudine artificiale l’incontro casuale è l’unica miccia in grado di far esplodere la storia, il file rouge che può unire le esistenze dei personaggi e dare loro un senso, ma se in Crash di Paul Haggis gli incontri/scontri dei personaggi erano calibrati su un equilibrio perfetto, che lasciava pilotare la storia al caso senza mai lasciare nulla in sospeso, qui Guy Edoin lascia l’intera dimensione del film sospesa. I conflitti interiori rimangono ingiustificati e l’autocommiserazione sembra l’unico elemento che accomuna i personaggi, spettatori più che protagonisti attivi del loro dramma personale.
Come l’attrice Sophie Bernard, interpretata da Monica Bellucci, tenta disperatamente di riprendere il contatto con la realtà spogliandosi degli abiti di scena, come della storia che il regista gli ha cucito addosso, così tutti gli altri personaggi sembrano attori costretti a muoversi secondo le regole del caso, bloccati in una storia che non hanno scritto da sè. E anche se Guy Edoin crea un quadro estetico perfetto, che scruta la pelle fino quasi a penetrarla con la macchina da presa, non riesce a penetrare nell’anima dei suoi personaggi e a fare dell’incontro il punto di svolta della sua narrazione.