#RomaFF11 – Florence Foster Jenkins, di Stephen Frears

Un cinema così impeccabile e così superato. Un altro biopic nell’opera del cineasta inglese che non va molto oltre la performance di Meryl Streep e che lascia il film con addosso la sua maschera

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Ci sono sempre due anime contrapposte nel cinema di Stephen Frears. Da una parte la ricostruzione d’epoca, dall’altra l’ambientazione moderna. E ce ne sono ancora altre due: i film inglesi e quelli statunitensi. Ma c’è però un elemento che, in gran parte, sembra marchiarli: lo stretto rapporto tra il personaggio e l’ambiente. La vista su New York nei frequenti attraversamenti di Manhattan e dell’esterno dove abita la protagonista sono già l’esempio dichiarato della stretta corrispondenza che c’è tra Florence Foster Jenkins e la metropoli. Un gioco spesso speculare che ha attraversato quasi sempre il suo cinema, da My Beautiful Laundrette Eroe per caso, da Le relazioni pericolose a The Queen.

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Il biopic sembra però l’elemento ricorrente della recente filmografia di Frears attraversato per frammenti in Muhammad Ali’s Greatest Fight e in The Program, sul campione di ciclismo statunitense Lance Armstrong. Anche Florence Foster Jenkins è basato su una storia vera, quella del soprano statunitense priva di doti canore che aveva ispirato anche Marguerite di Xavier Giannoli,

Il film di Frears è ambientato nell’anno della sua morte, il 1944. La donna è protagonista dei salotti dell’alta società newyorkese ed è una mecenate generosa e appassionata di musica classica. Lei pensa di avere una splendida voce. Gli altri però non sono dello stesso avviso, compreso il marito St. Clair Bayfield che però l’asseconda. La sfida più grossa sarà quando si esibirà alla Carnegie Hall.

florence-foster-jenkins-meryl-streep-hugh-grantIl cineasta inglese si affida a Meryl Streep – che, a differenza di Dove eravamo rimasti, offre una performance canora volutamente inascoltabile –  e crea dei siparietti comico-tragici soprattutto durante il concerto, cercando anche di restituire il clima dell’epoca attraverso gli spettacoli di Broadway. Florence Foster Jenkins è sicuramente un cinema sapientemente costruito ma senza nessun volo, tranne quello improvviso della protagonista vestita come un angelo, è attento a disegnare il rapporto tra moglie e marito che si nasconde in una doppia vita ma cerca di fare sempre da scudo protettore a Florence soprattutto quando cerca di nasconderle la stroncatura feroce del Post. Ed è forse questo elemento quello più interessante mentre resta sulla superficie la figura del pianista che ha accompagnato le esibizioni canore della donna. Hugh Grant si chiude in frequenti espressioni d’imbarazzo (ma non è André Dussolier) e si scatena soltanto in una scena di ballo, altro momento dove il film poteva improvvisamente prendere strade più impreviste e invece ha preferito tenersi in una tranquilla e fedele ricostruzione d’epoca. Frears non rischia più nulla. Peccato. Neanche prova a far esplodere il dramma intimo che si nasconde dietro la commedia umana come in Le relazioni pericolose e Chéri che invece riuscivano a far togliere progressivamente la maschera. Qui lo fa solo con i segni della malattia della donna. Ma seguendo prevalentemente un percorso narrativo di un cinema così impeccabile e così superato. Philomena era sulla stessa lunghezza d’onda ma sembrava solo una parentesi. Florence Foster Jenkins è invece una non piacevole conferma.

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