#RomaFF11 – Fritz Lang, di Gordian Maugg

Sulle ombre di Lang, quelle che dovrebbero scolpirne la terza dimensione, Maugg promette più di quanto mantiene, mostrandosi più interessato al sensazionalismo che al disegno della figura piena

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Un viaggio nella mente del genio. Gordian Maugg rende il suo tributo a Fritz Lang, raccontando la genesi travagliata di M, ispirato a varie vicende di cronaca e in particolare agli efferati omicidi commessi da Peter Kürten, sadico stupratore e assassino, serial killer insaziabile, capace per anni di tenere sotto scacco la polizia e di far vivere nel terrore la popolazione di Düsseldorf. Siamo agli inizi degli anni ’30. Lang ha appena terminato Una donna nella luna e cerca una storia che gli permetta, finalmente, di mettersi alla prova con il sonoro, in ritardo – voluto? – rispetto a molti suoi colleghi. Pensa a una storia d’estorsioni e ad aiutarlo nella fase di ideazione e stesura dello script, c’è la moglie Thea von Harbou, con cui, per altro, le cose vanno male. Ma le idee sono ancora confuse, i progetti vaghi, mentre i produttori sono alle costole. Finché un giorno Lang non dà un’occhiata alla prima pagina del giornale in cui si parla del Vampiro di Düsseldorf e delle indagini condotte dall’ispettore Gennat, una vecchia “conoscenza” del regista, proveniente da un passato misterioso. Lang decide di partire per andare a seguire da vicino le indagini e incontrare, finalmente, l’assassino. Su quanto raccontato da Maugg, da questo punto in poi, calano le ombre, nella confusione tra la “realtà” della ricostruzione e la drammatizzazione spinta.

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fritz-langDel resto, il biopic è stato già dichiarato morto. Se non è impossibile, quanto è meno ambiguo. E a Maugg più che la storiografia sull’arte e la vita di Lang, interessa proprio il lato oscuro, la contraddizione, il mistero, perché è tutto ciò che gli permette di inserirsi con il suo sguardo personale, di raccontare la sua storia. Che è quella di un genio contorto e tormentato, innamorato della propria intelligenza, ma assolutamente incapace di liberarsi dal peso del passato, da un’infanzia vissuta nel segno di un padre folle e brutale, da un amore finito nel peggiore dei modi (la prima moglie di Lang, Lisa, morta in circostanze misteriose, dopo aver scoperto la relazione del marito con Thea von Harbou). Un cocainomane, puttaniere, egoista ed egocentrico. Ma, in ogni caso, un uomo capace di avventurarsi nella mente e nei cuori degli altri, capaci di leggere nelle singole vite i segni del tempo e le dittature del destino. Un artista che sogna il controllo totale della forma e della materia, ma a malapena riesce a controllare se stesso. Il fatto è che sulle ombre di Lang, quelle che dovrebbero scolpirne la terza dimensione, Maugg promette più di quanto mantiene, mostrandosi maggiormente interessato al sensazionalismo che al disegno della figura piena. E così gioca sul facile. Il rapporto violento con una prostituta, presa da dietro, in piedi, contro il portone di un palazzo, che diviene il pretesto per una veloce carrellatastorica sulla Germania piegata dal dopoguerra, la violenza montante, i germi del nazionalsocialismo. I falshback sulla gioventù e la relazione con Lisa, i sospetti di omicidio e le accuse sottili di Gennat. I momenti di delirio, con la pistola agitata contro gli altri e contro se stesso. Fino alle scene in cui, davanti agli occhi di Lang, prendono vita le terribili imprese del serial killer, mentre colpisce col martello una ragazza o scava una sepoltura per la sua vittima. Sono momenti in cui il film prende quasi la piega di un thriller/horror, con il protagonista che entra in un vortice di follia mentre si avventura nella mente dell’assassino. Maugg ha bisogno di materializzare le idee, le emozioni, le visioni del personaggio, perché non ha la forza di farle emergere da sé. E perciò abbraccia le convenzioni di genere, risettando in un attimo tutte le pretese di originalità, di approfondimento, persino tutte le ipotesi di rilettura storica. Il film finisce per funzionare solo come racconto di un’indagine, mentre Lang rischia di ridursi a una figura stereotipata (al punto da risultare più interessante il personaggio di Kürten), se non fosse per l’interpretazione di Heino Ferch. E se la ricostruzione d’epoca resta interessante, con l’utilizzo dell’archivio in funzione narrativa, soprattutto nelle scene d’esterni, più artificioso, finanche didascalico, è il modo in cui Maugg mette in relazione lo svilupparsi della vicenda con le immagini e i motivi del cinema di Lang e in particolare di M. Un altro modo di materializzare l’invisibile dell’ispirazione. O, forse, il definitivo suggello di un film tutto costruito all’ombra del genio, tra le sbarre di un quattro terzi che non lascia scampo.

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