#RomaFF11 – Goodbye Berlin, di Fatih Akin
Quasi una versione tedsca di Microbo e Gasolina di Gondry nel film tratto dal romanzo cult di Wolfgang Herrndorf. Ad oggi il film migliore del regista. In Alice nella città
Quasi un intero flashback. La scena di un incidente d’auto in apertura inquadrata dall’alto e i maiali per strada. Il cinema di Fatih Akin improvvisamente deraglia, cambia tono, si lascia dietro gli squarci metropolitani di titoli come La sposa turca e Ai confini del Paradiso per spostarsi dalle parti di un diario di iniziazione adolescenziale.
Maik è un quattordicenne solitario. In classe non è considerato da nessuno e a casa si deve spesso occupare della madre ubriaca mentre il padre non si occupa di lui quasi per niente. Rimasto solo per le vacanze, decide di partire assieme a Tschik, un immigrato russo da cui a scuola tutti si tengono a distanza che si presenta a casa sua per un viaggio che fanno con un auto rubata.
Forse è il romanzo cult tedesco di Wolfgang Herrndorf da cui il film è tratto a regalare al cinema di Akin un’improvvisa leggerezza e una dosa di incontrollata follia. Goodbye Berlin infatti sembra stare quasi dalle parti di un Gondry con un po’ meno di poesia – può apparire quasi come un Microbo e Gasolina tedesco – ma con dentro anche una sana cattiveria e scorrettezza (il vomito sul banco) con autentiche invenzioni come i Nobili in bici o la famiglia con la madre che prima di dare da mangiare ai figli fa delle domande di cultura generale. Ma dietro la sua sfrontatezza, quello di Akin è anche un riuscito sguardo adolescenziale sull’esclusione e sulla ricerca di riscatto, che si accosta, proprio nelle visioni soggettive, anche dalle parti di una commedia sentimentale francese (la compagna di classe che da a Maik l’invito per la festa) o nera (il gesto della pistola contro il padre e la sua assistente).
Come Gondry, anche quello di Akin è un cinema on the road senza meta, che attraversa l’asfalto della strada e la terra dei campi, che esplora il paesaggio come se fosse guardato distrattamente dagli occhi dei due protagonisti. Certo, a volte nello sguardo del cineasta, c’è qualche sottolineatura come nell’uso dello zoom e dei ralenti. Ma non è fortunatamente questione di stile. Solo l’esigenza di entrare nella testa di Maik e Tschik e farsi trascinare da loro. Lo sguardo di Akin ci si affida e si fa portare via con loro. Accompagnato a tratti anche dalla cassetta con le musiche al piano di Richard Clayderman su alcuni fondali che sembrano quelli di Game of Thrones. Quell’ironia e quelle soluzioni che il cinema del regista, chiuso in un’autorialità ingombrante, non ci ha nemmeno fatto intravedere. Ed è forse per questo che Goodbye Berlin è il suo film più sorprendente. Oltre che il migliore.