#RomaFF11- Il tempo (simbolico) del NO… 7 Minuti, di Michele Placido

Placido sembra raccontare la dolorosa “residualità” di un mondo che sta scomparendo, e questa sua incredibile e silenziosa “fabbrica fantasma” sembra un po’ la metafora del cinema, oggi.

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Sembrano niente, 7 minuti.  Neanche il tempo di un caffè, o di una sigaretta. Pochi semafori nel traffico cittadino, qualche jingle di spot in radio o alla tv, due post e un video su YouTube… insomma un attimo!

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E’ quello che pensano subito le delegate sindacali della fabbrica tessile che, nel passaggio dalla proprietà italiana a quella francese, vede quest’ultima lanciare un’unica condizione ai lavoratori: saranno mantenuti tutti i posti di lavoro ma devono ridurre la pausa pranzo da 15 a 8 minuti.

Cosa sono solo 7 minuti di fronte alla perdita del lavoro? Nulla, per quasi tutte le donne di questo consiglio sindacale, donne di varie generazioni ed etnie, un meltin pot socioculturale riunite sotto lo stesso tetto industriale per la comune necessità di avere uno stipendio a fine mese. Quasi tutte, però. Perché la rappresentante di queste delegate, Bianca, la più anziana di loro  (una fantastica Ottavia Piccolo), vuole provare a ragionare con tutte le altre su questa strana, semplice quanto insinuante richiesta. Parliamone.

Il riferimento è esplicito a La parola ai giurati di Lumet, dove Henry Fonda era l’unico che non accettava passivamente e rapidamente la sentenza di condanna per il giovane accusato di omicidio. Sulla base della Piece di Stefano Massini, Placido ricostruisce questa storia dentro lo scenario post-industriale dei nostri tempi, a sua volta ispirato ad una fatto reale accaduto in una fabbrica francese nel 2012.

Ma cosa sono oggi le fabbriche? E cosa è diventato, oggi, il lavoro? Siamo in un micro mondo residuale, ormai quasi completamente decentrato in altri paesi dell’ex terzo mondo, mentre qui nel “primo mondo” regna la precarietà dei lavori senza contratto, senza diritti, senza certezze, senza futuro.

Non è questo il caso delle lavoratrici di 7 minuti, che invece un contratto ce l’hanno, un lavoro sicuro (forse), e qualche diritto ancora rimasto in piedi dalla deregulation degli ultimi 20 anni.  Queste 11 donne con le loro storie, le loro famiglie, più o meno sregolate, le loro rabbie malcelate, gli isterismi precoci, sono tutte dentro un micro mondo fatto di odi e gelosie, razzismi quotidiani e vite alla giornata, bambini in arrivo e bollette da pagare, e devono decidere per se, per le loro famiglie e per altre 300 persone che lavorano nella fabbrica.

7 minuti non sono niente, non valgono il costo del rischio di perdere il lavoro. Ma sommati tutti assieme, questi pochi minuti diventano tanti, diventano altri posti di lavoro. Diventano economia. Ma, soprattutto,  diventano un qualcosa di intangibile ma terribilmente simbolico. Significa cedere su un proprio diritto. E ogni diritto che abbiamo qualcuno nel passato lo ha ottenuto a prezzo di grandi battaglie e fatiche e dolori, a volte anche al costo della vita. Ed ecco che la questione diventa “ideologica”, termine desueto che è stato per anni minato di sensi negativi, come se la battaglia delle idee non fosse parte centrale dell’esistenza umana…

film-7-minutiPlacido come sempre ha una sorta di “aura magica” nella direzione degli attori, e come per sottolineare l’essenza minimale della storia, trasforma il set in un quadro di famiglia, con figlia e fratelli in campo, mettendosi inscena con il proprio nome, Michele, nei panni del proprietario dell’azienda che sta per essere venduta. Questo perché evidentemente lo aiutava nel tentativo di creare un’atmosfera familiare, intima, di un gruppo di donne che tutti i giorni passano ore e ore fianco a fianco, ognuna con le sue storie, con i suoi dolori e le sue gioie, i suoi segreti e le cose da condividere.

Forse il “kit” è un po’ troppo costruito (dalla pièce), la ragazza di colore, quella albanese, la ribelle che fa la boxe, la ragazzina, la donna matura con la figlia che sta per partorire, la napoletana che urla sempre e sta continuamente al telefono, ecc… e alcuni scambi di battute tra le donne profumano ancora troppo di performance teatrale (mai rinnegata, del resto), però Placido riesce da un lato a catturare, caricandoli di emozioni forti, dei frammenti di vita “fuori dalla fabbrica” (una Latina che sembra una città fantasma), con attimi rubati alla “centralità territoriale” della storia, dall’altro si innamora palesemente dei suoi personaggi, permettendo certo, ad ognuno, una sua “scena madre”, ma garantendosi in cambio un’autenticità drammaturgica come se tutte le attrici fossero, ognuna, la vera protagonista del film.

Che invece resta, nel suo mutismo alla riunione con i vertici aziendali, fino a una sorta di iniziale afasia nello spiegare questo pseudo accordo alle sue colleghe,  la Bianca di Ottavia Piccolo, che, solo per un attimo, la vediamo sdraiata sopra il tavolo della riunione sindacale, quasi a prender fiato, a riconsiderare il tutto da un possibile punto di vista diverso, salvo poi, quando si farà aiutare per rialzarsi, dirsi, “chissà come mi è venuto in mento di sdraiarmi qui…”.

Bianca è lì da trent’anni, conosce tutte le donne e le storie della fabbrica, e soprattutto conosce, per averli fatti approvare, tutti i tagli ai vari “pezzi di diritti” accordati nel passato. Conosce la differenza tra una rivendicazione e un atto simbolico. E sa che è l’aver sempre ceduto e concordato che le ha portate a quel punto. Ma è un punto di non ritorno. Questo cambiamento lei non lo accetta e, di fronte al “nuovo che avanza”, voterà NO.

Non so se questo NO è la dichiarazione, (simbolica?) di voto di Placido in vista del Referendum Costituzionale di dicembre, certo è che la lotta per i diritti passa anche attraverso elementi simbolici, e il tempo che ancora segna la misura del salario, sembra ormai decisamente più obsoleto della residualità della fabbrica.

Tempo/lavoro, tempo/vita, tempo/salario, tutte dicotomie ormai in profonda esplosione, di una prossima rivoluzione imminente, dove il lavoro non sarà più necessariamente legato al salario per vivere, ma, chissà, un giorno, una libera espressione delle persone. Placido sembra raccontare questa “residualità” come un mondo che sta scomparendo,  non ancora sostituito da un “nuovo mondo”,  e questa sua incredibile e silenziosa “fabbrica fantasma” sembra un po’ la metafora del cinema, oggi. Di fatto morto da un pezzo, sostituito da altri mondi e immaginari, ma ancora al centro delle nostre vite disperate e dissennate.  Altro luogo simbolico dove il “taglio” dei minuti a volte è un crimine, altre un “atto di dolore”, altre ancora un breve e indispensabile respiro.

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