#RomaFF11 – Immortality, di Mehdi Fard Ghaderi

Sei famiglie, tantissimi personaggi, si danno il cambio “in scena” su un treno nella notte. Il tutto ripreso in singolo piano sequenza. Premesse molto interessanti, in un film non del tutto riuscito

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Quando ti immagino, quando ti chiamo, quando ti guardo, quanto ti sfioro, quanto sento il tuo odore…io mi sento immortale. C’è sempre un uomo che dice a una donna quanto sia il contatto a creare immortalità tra i mortali. È questo il sottile filo che lega i destini di sei famiglie, su un treno che attraversa l’Iran di oggi, in una notte piovosa. E questi continui link tra piccole storie di quotidianità vengono assicurati dal cinema, ovviamente, che in un unico piano sequenza si arroga il compito di raccontare il tempo presente e le storie che lo abitano. Inutile poi ricordare come il treno sia di per sé la più antica delle metafore del dispositivo cinematografico, sin da Lumière, sin dall’originaria consapevolezza che il cinema fosse perennemente in transito tra magia e tecnica, tra arte e artigianato, per raccontare le varie pieghe dell’umanità.

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Ecco: qui siamo sempre su un treno, il film è un unico lunghissimo piano sequenza. Premesse indubbiamente interessanti, è evidente. Le sei storie intrecciate ci fanno condividere un pezzo di strada insieme, cercando di raccontare anche complesse dinamiche sociali come il rapporto con la religione, con le giovani generazioni, con la memoria. Oppure analizzando la non facile condizione femminile che viene però costantemente bilanciata dal ruolo fondamentale che nei fatti la donna assume nelle coppia: creare o ricevere il contatto umano che è immortalità. Insomma i tantissimi personaggi si danno costantemente il cambio in scena (uomini, donne, ragazzi, bambini, tanti frammenti di vita scorrono nei 150′ di durata) in una staffetta assicurata dal transito nei lunghi corridoi come configurazione del tempo che si sedimenta poi nelle varie carrozze in una tradizionale narrazione.

La dialettica tra tempo e narrazione viene quindi orchestrata come un classico “cambio scena” che muta lo spazio della visione. Un’impronta forse troppo teatrale, anche nella recitazione, con il sostrato metaforico che alla lunga prende il sopravvento: si ha quasi la sensazione che la bella idea di base sia stata un po’ troppo dilatata e reiterata per convincere sul serio. Ma se l’atmosfera onirica tanto evocata tarda a farsi strada, ne rimangono pur sempre le tracce: spesso i personaggi cantano o ballano per mutare spazio, tentano di ricominciare confessando le proprie paure o i propri amori, nei momenti di passaggio. Un film troppo pensato e forse troppo ambizioso, ma che ci regala comunque una notte (il buio), su un treno in movimento (il cinema) sotto l’attento sguardo di un anziano signore (il suo spettatore).

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