#RomaFF11 – Into the Inferno, di Werner Herzog

Con la benedizione di Netflix, Herzog ritrova Clive Oppenheimer, vulcanologo di Cambridge. E, in giro per il mondo, si muove tra l’urgenza folle del gesto umano e l’inutilità dell’ansia dell’attuale

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Con la benedizione di Netflix, Herzog ritrova Clive Oppenheimer, il vulcanologo di Cambridge, che già aveva incrociato in Encounters at the End of the World, in cima al monte Erebus, il vulcano antartico dell’isola di Ross. E lo accompagna in un altro assurdo giro del mondo, da un vulcano all’altro, dall’arcipelago di Vanuatu alla Corea del Nord, passando per l’Etiopia, l’Islanda, l’Indonesia… il monte Merapi, lo Yasur, il Paektu e via dicendo. Terre in eruzione, emerse o sommerse, terre instabile, sempre mobili, in proiezione o in colata, sempre a un passo dall’esplosione e distruzione definitiva. Per chi abita lì, alle pendici del formidabil monte sterminator, la precarietà è l’unica certezza, l’unica cosa vera, stabile, definitiva, che mette in moto un’altra percezione della vita e della morte. Ed è questo, in fondo, ciò che interessa davvero a Herzog, più che l’aspetto scientifico del fenomeno vulcanico, più che le strategie di difesa messe in atto dagli uomini, con le loro scienze e le loro tecniche. Quel mistero che la terra si porta dentro, quella materia fusa e incandescente che ne costituisce il cuore profondo, pronto a tornare in superficie, a fior di pelle, lungo ogni frattura, ogni ferita prodotta dal lavoro del tempo. L’anima rossa del mondo, che, in qualche modo, rende vana, inappropriata ogni cosa, qualsiasi sforzo. Come si convive, come si sopravvive alla certezza della distruzione? Ecco la domanda, la cui risposta probabilmente Herzog aveva già incrociato anni fa, nella tranquilla indifferenza del contadino addormentato ai piedi de La Grande Soufrière, in Guadalupa, mentre tutto la città di Basse-Terre veniva evacuata per l’eruzione ormai imminente. L’accettazione pacata, serena dell’ineluttabile come radicale affermazione della relatività degli uomini o delle cose. O, magari, pura e semplice follia?

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into-the-infernoInto the Inferno riprende quelle immagini del 1976, filmate dalla sublime incoscienza di Herzog (e della sua troupe – perché, ricordiamo, un direttore della fotografia non può essere un codardo), che girava lungo le strade deserte della città alla ricerca di un’ultima, residua traccia umana. Così come riprende i momenti con Oppenheimer di Encounters. Disegnando in questo modo una specie faglia sotterranea che corre lungo la filmografia herzoghiana. Quella che costeggia il mistero della Natura, toccandone con mano l’orrore e, al lato opposto, l’estasi. Quella che afferma la necessità della presenza, dell’azione, dell’action sul posto, ma, al tempo stesso, non può che confermare l’inevitabilità del distacco dal terreno, il destino dell’assenza e del vuoto. Oppenheimer mette in campo le sue competenze e la sua passione di studioso. Herzog gli sta dietro da vecchio amico. Ma, in qualche modo, è sempre da un’altra parte, come se seguisse il filo di altre traiettorie, di ragionamenti tutti suoi. Come diviene evidente nell’incredibile segmento nordcoreano, con Herzog che finge di interessarsi alle discussioni del team internazionale ammesso a studiare il monte Paektu insieme agli scienziati locali. Ma in verità, forse primo uomo della terra, inquadra un ennesimo vuoto, quello della retorica di regime, e l’assurda e magnifica realtà di una società aliena, che vive in altro pianeta e in un’altra era della storia. Ed è il suo commento, la sua presenza, la sua voce a marcare la distanza, come un controcanto che parla del lato nascosto della luna. Il cinema di Herzog si muove lungo questo crinale, tra l’urgenza folle del gesto umano (fare cinema) e l’inutilità dall’ansia dell’attuale. Essere qui adesso, pur se non conta nulla, visto che lo spazio e il tempo hanno altre dimensioni nella prospettiva del tutto o dell’eterno. L’ignoto come paura e desiderio, il mito, la fede, la speranza, l’illusione. Tutto ciò sta dal lato dell’umano e della vita (“ho avuto paura” confessa il capo villaggio). Ma, dall’altro lato, c’è la consapevolezza di come tutto sia una messinscena, un rito (le urla dei cannibali, la danza propiziatoria, gli studenti che cantano all’anima della montagna), una follia incomprensibile, sia essa la nuova religione di John Frum, sia la passione fotografica dei coniugi Kraft, vittime predestinata della furia piroclastica, o l’esaltazione scomposta dell’archeologo che sfida la fortuna cercando i resti dei primi uomini. È come Las Vegas… luce al neon innalzata sul deserto. È passare dall’entusiasmo alla disillusione, come nella ballata amara di Stroszek. O dalla vita attiva all’ascesi. Come tutto il resto, il cinema non “serve” a nulla. Per questo può passare dall’inferno al cielo, con la leggerezza di un drone o la pesantezza di un elicottero, poggiati entrambi sul vuoto delle immagini.

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