#RomaFF11 – Sword Master 3D, di Derek Yee

Torna il Terzo Maestro da Death Duel del 1977, in cui Derek Yee interpretava il protagonista. Raramente riesce a far scattare la scintilla della vera passione e a iniettare le immagini con il sangue

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Questo aveva tutta l’aria di essere un progetto importante per Derek Yee, tornare sulla figura del Terzo Maestro a 40 anni di distanza da Death Duel, il film di Chor Yuen che aveva lanciato la carriera d’attore di Derek nelle tarde produzioni degli Shaw Brothers proprio nel ruolo dell’errante spadaccino invincibile ma ostinatamente contrario al combattimento se non messo alle strette: Sword Master riprende il personaggio con Derek Yee da decenni assestato ormai dietro la mdp e non più a compiere piroette sul set, e per farlo si rivolge all’ala protettiva forte di Tsui Hark, che produce e sceneggia l’opera.

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Dal wuxia di trucchi di scena, cavi e botole nascoste del periodo Shaw il genere è però passato in quattro decenni a rappresentare il terreno di prova più estremo della digitalizzazione in 3D dell’armamentario del cinema fantastico, con punte di sospensione che ormai oltrepassano senza soluzione di continuità il confine tra gli interventi in post e l’animazione tout court, si veda ad esempio la saga programmaticamente celestiale degli estenuanti Monkey King che non a caso chiamano al lavoro gli assi della fabbrica hollywoodiana per lavorare all’effetto stereoscopico tonitruante.
Ma Derek Yee non è Tsui Hark, e il suo film non raggiunge certo le vertigini di astrazione avanguardista di sortite come Flying swords of dragon gate e Young Detective Dee, nonostante la partnership tra i due sguardi.

Lo scontro perennemente ritardato tra il Terzo Maestro e il demoniaco Yan Shisan (la star taiwanese-americana Peter Ho), che è convinto di eguagliarlo in abilità, è condito come si conviene da sottotrame sentimentali, intrighi politici e conflitti familiari messi a nuotare in un oceano di CGI sfarzosamente intarsiato fino a straripare, ma raramente riesce a far scattare la scintilla della vera passione e a iniettare le immagini con il sangue degli amori e degli odi viscerali che i protagonisti provano sulla scena.
Colpa in parte di un cast decisamente spento nel tratteggiare la potenza iconica degli archetipi tirati in ballo (la principessa, il guerriero solitario che si è ritirato dalla battaglia, il bounty killer, l’assistente goffo come spalla comica, la madame del bordello, ecc), e di coreografie che seppur solide non abbandonano mai le soluzioni familiari per azzardare il colpo ad effetto più imprevisto.

Resta però intatto, come sempre, il grande fascino per un cinema liquido che si muove costantemente in trasparenza, com’è questo delle grandi produzioni cinesi-hongkonghesi, pensato per tramutarsi all’istante in molecola instabile per il gigantesco organismo digerente dell’immaginario di platee il più sterminate possibile, e che a tutti i livelli, da quello produttivo a quello distributivo a quello meramente di dispositivo di visione, persegue infaticabile a costruire un piano di realtà orgogliosamente parallelo, una dimensione propria che segue regole e leggi tutte proprie da un lato e dall’altro dell’inquadratura.

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