#RomaFF11 – The Long Excuse, di Miwa Nishikawa

Quasi una postilla al bellissimo “Like father like son” di Kore-eda, il film di Nishikawa si insinua sottopelle con la stessa forza di certi motivetti di fronte a cui ti scopri inerme

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Sachio è uno scrittore di successo, sposato a una compagna d’università che l’ha sostenuto e incoraggiato nei momenti difficili, ma che ora non ama più. È infatti con un’altra donna quando la moglie muore in un incidente, insieme a una cara amica. Ma neanche questo riesce a scuoterlo dal suo torpore, fin quando l’incontro con Yoichi, marito dell’amica di sua moglie, e i loro figli Shinpei e Akari, non sconvolge il suo mondo.

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È un cinema delle piccole cose quello di Miwa Nishikawa e se i sogni sono ancora in vendita – come recitava il titolo del suo film del 2012 Dreams for sale, in concorso, come quest’ultimo, al Toronto Film festival – il prezzo da pagare è alto. Forse troppo, per questo personaggio che sembra aver barattato la felicità col successo e la cui parabola di redenzione pare sempre a un passo dalla forzatura del film a tesi, in cui la scrittura dà l’idea di piegare il personaggio assoggettandolo alle proprie esigenze. E invece, il miracolo – ancora una volta, come per Like father like son, titolo che riecheggia in ogni immagine di Miwa Nishikawa – accade.

thelongexcuseLa regista e scrittrice artisticamente allevata da Kore-eda torna con coraggio a riflettere sulla questione della paternità già affrontata dal suo mentore, trovando di nuovo in due figure opposte due modi di approcciarsi al mondo, alla vita. Da una parte la freddezza, il rigore dell’intellettuale, che da dietro uno schermo ha perso il contatto con la realtà, dall’altra la semplicità, l’immediatezza del lavoratore, che non ha paura di mostrare il suo dolore.

Nishikawa scivola dolcemente dal dramma alla commedia, lasciandosi toccare come il suo protagonista (il Masahiro Motochi di Departures) dalla colorata e chiassosa umanità del mondo di cui i piccoli Shinpei e Akari schiudono le porte.

the-long-excuse-akariEntrando nella loro quotidianità, fatta di ipnotiche sessioni di anime e disegni, di massacranti salite in bicicletta ma anche delle cocenti delusioni della crescita, il film allontana lo spettro della struttura, concedendosi innocenti digressioni, prima di arrivare alla meta, che sono a conti fatti il vero corpo e cuore dell’opera.

Perché se il plot in sé pare già prestarsi a possibili rivisitazioni (non fatichiamo a immaginarcene un remake americano…) è nella dolcezza dello sguardo che questo cinema appare inimitabile e disarmante: si insinua sottopelle con la stessa forza di certi motivetti di fronte a cui ti scopri inerme, come le canzoni d’amore secondo Truffaut, quelle che “Plus elles sont bêtes, plus elles sont vraies”, e riattiva emozioni sopite. Soprattutto quando dopo questa corposa elaborazione del lutto, della perdita, universalmente inscritta nella crescita, ci esorta gentilmente a guardare il mondo, ché “la vita…è gli altri”. 

E se anche, da manuale, c’è forse un limite narrativo nei diversi sottofinali che sembrano non concludere mai la storia è per troppo amore verso i personaggi, compagni di viaggio da cui l’autrice non può, e non vuole, separarsi.

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