#RomaFF11 – The Secret Scripture, di Jim Sheridan

Dal romanzo di Sebastian Barry, un cinema che sembra vecchio mentre è molto più vivo di quello che appare, che ritorna a Nel nome del padre e Il campo e che cresce gradualmente in un doppio biopic

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La scrittura a mano sopra il testo della Bibbia. Con disegni che sono premonizioni, visioni. Dal romanzo di Sebastian Barry, la parola di The Secret Scripture sembra svincolarsi dalla sua origine letteraria. Diventa, come nel cinema di Boorman, fondamentale dettaglio che apre squarci lirici sul passato e sul presente in un film dichiaratamente ‘a due facce’. Un dramma che è anche biopic soggettivo, che si apre con la voce fuori-campo ma che poi diventa il racconto intimo della rappresentazione di un’epoca. “Non ho ucciso mio figlio” dice Lady Rose all’inizio. Non è un’allucinazione ma un grido di libertà. Con quella portentosa ricerca di giustizia di un cinema civile che aveva segnato uno dei film più belli di Jim Sheridan, Nel nome del padre.

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Lady Rose vive in un ospedale psichiatrico da oltre 50 anni. Il dottor Greene vuole far luce sul suo passato e scopre che è stato segnato da un amore straordinario ma anche da una forte ingiustizia subita. Senza famiglia, si era trasferita nella caffetteria della zia. Si era innamorata di un pilota da caccia mentre il prete locale aveva perso completamente la testa per lei. Lei però non corrisponde lo stesso sentimento e da quel momento inizia il suo incubo.

Il film di Sheridan parte lentamente, ingabbiato in una scrittura rappresentativa ma poi se ne libera mettendo in gioco le lacerazioni/separazioni familiari di In America e quella corrispondenza della vicenda avvolta nel paesaggio di Il campo. Come in Philomena di Stephen Frears c’è un forte stacco temporale tra la rappresentazione d’epoca e la parte più moderna. E se la seconda è leggermente più costruita, la prima rappresenta invece il vero punto di forza di The Secret Scripture. Attraverso le corse in moto sulla spiaggia, una comunità ostile quasi alla Peckinpah di Cane di paglia, la casa isolata, gli aerei che volano e che segnano, ad ogni passaggio, una continua corrispondenza sentimentale. Attraverso, ancora, gli sguardi, simili a quelli di Rose che non abbassa gli occhi davanti a nessuno, che sembrano disegnare immaginarie lettere d’amore, quelle parole che non sono mai state scritte ma si leggono proprio lì, in the sky.

Sheridan disegna un cinema vecchia maniera. Senza il totale trasporto di Boorman ma con uno spirito che oltrepassa la rappresentazione non solo di Philomena ma anche di Magdalene di Peter Mullan. Inoltre gioca sin dall’inizio sulla sovrapposizione dei due corpi di Rose. Come se si sdoppiassero. Da una parte Vanessa Redgrave, dall’altra Rooney Mara in un ruolo che originariamente era stato pensato per Jessica Chastain. Sembrano guardarsi all’inizio. Poi l’inquadratura è come se si spezzasse in due e le dividesse per sempre. Proprio come la personalità di Rose. C’è un prima e c’è un dopo. C’è una ricerca della felicità precaria e poi le scene del manicomio, dove Sheridan non calca mai la mano e in cui il film si apre dentro altri inquietanti abissi. Dietro una rappresentazione lineare, quasi prevedibile, The Secret Scripture nasconde molto di più. Le immagini del film di Sheridan sono come la pagina della Bibbia. Sopra c’è altro. Parole scritte a mano e disegni. Ancora. In ogni frame di un film che, giunti alla fine, andrebbe riavvolto tutto e rivisto con i nuovi indizi.

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