#RomaFF12 – Finchè c’è prosecco c’è speranza, di Antonio Padovan

Come se fosse un vino – o un prosecco – fuori stagione, il film si macera a fuoco lento, in un preriscaldamento continuo, sospeso nella promessa di un imminente decollo. Alice nella città

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Finché c’è prosecco c’è speranza. Innanzitutto, bisogna bypassare il nome – che potrebbe anticipare una commedia in stile cinepanettone, oppure una pubblicità estiva in TV – con l’aspettativa, appunto, di trovare qualcosa di effervescente. Ma sin dal’inizio, il film d’esordio di Antonio Padovan, tratto dal’omonimo romanzo di Fulvio Ervas continua a sembrare qualcosa che non è: la panoramica dei vigneti nella campagna veneta, seguita da un primo piano di un uomo che fa delle carezze all’etichetta di una bottiglia di prosecco, per poi assaggiare un bicchiere guardando negli occhi di una donna, suggeriscono un’esperienza tipo Un’ottima annata o Il profumo del mosto selvatico. Ma dove ci sta portando Padovan? Almeno la curiosità, come il prosecco, c’è. La speranza, ancora non si sa.

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All’improvviso, l’attesa comincia ad avere senso e ci troviamo fronte a un giallo, che come la nebbia nelle colline venete si spande lenta e silenziosamente, senza fretta e con un certo spessore. L’uomo che amava il prosecco è il conte Desidero Ancillotto (Rade Serbedzija), vignaiolo che si toglie la vita in modo teatrale nel cimitero del paese accanto al suo palazzo, bevendo una delle sue bottiglie e parlando con i morti delle tombe che lo circondano. Sull’etichetta della bottiglia c’è scritto: “bevuta nell’ultimo giorno di battaglia”; una battaglia che lui, accanto ad altri membri della sua fratellanza, ha sostenuto contro una fabbrica multinazionale che inquina la zona e ha distrutto un pezzo della loro terra. Dopo la morte del conte, nel paese continuano a scatenarsi una serie di omicidi sempre collegati alla lotta di Ancillotto, in una terra dove, nelle parole di uno dei contadini, “ti seppelliscono in piedi per fare spazio al prosecco”. A indagare su questa vicenda viene chiamato l’ispettore Stucky (Giuseppe Battiston), un uomo cinico e solitario,  che abita tra i fantasmi dei suoi genitori e che presto capirà che alcune cose non finiscono con la morte, finendo coinvolto nel caso più di quanto vorrebbe.

Come se fosse un vino – o dobbiamo dire, un prosecco – che si macera troppo lento in attesa

Prosecco matto della stagione giusta ma poi finisce per perdere la sua corposità, il film si svolge a fuoco lento, in un preriscaldamento continuo, sospeso nella promessa di un imminente decollo. Mentre l’ispettore Stucky rivela un certo dinamismo nel suo sviluppo – senza, però, svegliare qualcosa di più forte che una timida simpatia – l’interesse del racconto rimane nello stesso ambito dei sospetti di omicidio indagati da Stucky: quello del “potrebbe essere, ma non è”. Tra questi personaggi – tra cui c’è anche Celinda, la figlia del conte (Liz Solari), la governante (Gisella Burinato) e la prostituta veneziana Francesca (Silvia D’amico) – la lucidità la porta il matto del paese, un uomo che abita in una dimensione fantasma e che ogni giorno pulisce le tombe al cimitero, mentre parla con i morti, li saluta e gli chiede come vanno le cose lassù, rendendoli più vividi, corporei e coerenti di tanti altri che continuano a respirare.

Forse, in Finché c’è prosecco c’è speranza ha più importanza il mondo dei morti che quello dei vivi. Infatti, la morte come continuità e come presenza costante nella vita, oppure il rapporto simbiotico tra quelli che rimangono e quelli che partono, è un filo narrativo che in questo caso poteva arrivare lontano, ma che il film presenta come un abbozzo per poi sgonfiarsi come un fermentato senza lievito. La speranza, però, non finisce con il prosecco; ci sarà sempre una nuova stagione, una prossima annata, una terra fertile e una nuova opportunità di raccogliere quello che si è già seminato.

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