#RomaFF12 – Metti una notte, di Cosimo Messeri

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Corso estivo di MONTAGGIO, dal 22 luglio

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Metti una notte, di Cosimo Messeri, calibra con una certa intelligenza i riferimenti dell’autore e utilizza con sapienza le doti degli attori e l’impianto onirico-surreale. Alice nella città.

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Martino è un entomologo formatosi in Svizzera. Un esempio di nice guy/nerd a tutto tondo. Il giorno del rientro a Roma si imbatte nella sua prima cotta, Tea, che al tempo delle elementari neppure si accorgeva che esistesse. Lo zio, scienziato come lui, lo persuade a fare da babysitter alla figlia di amici, e, fatto taciuto, alla nonna pseudo alcolizzata, ciminiera, e quantomai eccentrica, la straordinaria Amanda Lear, in rientro in Italia dopo dieci anni. Quella stessa notte, in un tripudio di (s)fortunati eventi, ai limiti del possibile, ma poco ci importa, i tre, coadiuvati dall’ex babysitter, Cristiana Capotondi, si immergono nella malavita, romana e napoletana, nei trucchi del mago Stellini, e in una scia rocambolesca provocata dalla bella Tea, invischiata nel malaffare. Metti una notte è l’esordio registico di Cosimo Messeri, fiorentino, figlio d’arte, e un inizio promettente come aiuto di Nanni Moretti ne Il caimano. Il suo cursus honorum fa a braccetto con una cinefilia sfrenata, sia di prodotti che di personaggi, ma distante dal citazionismo sterile. Purtroppo la riverenza verso i padri fondatori in parte soffoca l’originalità di sguardo e laddove meriterebbe l’esclusione spunta la timidezza, capace, anche se non è questo il caso, di mozzare le gambe in un colpo solo.


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Messeri si muove agevolmente nei novanti minuti canonici della commedia; sa calibrare gli sketch, di cui è il massimo protagonista, distribuendo il dosaggio fra le altre figure senza cercare la ribalta artificiosa. Una scrittura pulita, collaudata da quel nonsense paradigma del film, e palesemente omaggio alla risata del muto o a comici intelletualoidi quali Allen e lo stesso Moretti. Si avverte però una sottrazione, imposta come no, quasi il timore di indexcadere fosse troppo grande, e a farne le spese è proprio la sua bravura. In un impianto surreale/onirico le bizzarrie avrebbero potuto cadere a valanghe, incuranti della verosimiglianza, dei raccordi causa-effetto, insomma innalzando l’insensato ad acme, a concept indiscusso. Però resta il garbo, un’eleganza che accogliamo volentieri perché sposa del genere che Messeri ama, fra tutti lo slapstick. Se il suo boy meets girl non è dei più originali e spassosi, i caratteri che pian piano affollano l’immagine si sobbarcano quel compito e, seppur con qualche zoppicamento, portano a casa una piacevolezza alquanto rara. C’è il gruppo dei giocatori incalliti di scarabeo, la famiglia Cafoni, questo è il nome, il café dei freaks, un coté preparato e servito con l’amore di chi il cinema non l’ha solo guardato.

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C’è da dire che Messeri dimostra anche una certa intelligenza facendo stendere i panni sporchi a Madame Lear. L’irriverenza ed eccentricità del suo personaggio, il più scomodo e vicino al disturbatore del genere demenziale, trattiene sapientemente il rischio volgarità. The Queen of Chinatown è una delle poche a potersi concedere certi dialoghi, non incappando mai nello stereotipo “nonna trasgressiva 2.0” perché l’immaginario che abbiamo di lei va ben oltre, per quanto lontanissimo dalla realtà.

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