#RomaFF12 – The Hungry, di Bornila Chatterjee

La carica drammaturgica messa in moto non riesce a scrollarsi di dosso la persistente sensazione di una messa in scena eccessivamente macchinosa, artificiosa.

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Tulsi sta per sposare Sunny, rampollo molto più giovane di lei della potente famiglia Ahuja. Il futuro suocero, lo “zio” Tathagat, che era stato il socio del padre di Tulsi ed ora è il patriarca che incontrastato gestisce affari e ménage domestico, si accinge a benedire i due sposini con sontuosi festeggiamenti nella sua tenuta di campagna. Le due famiglie, Joshi e Ahuja, saranno in questo modo unite indissolubilmente anche da un legame di sangue, dando inizio a un’inarrestabile dinastia. Ma l’intreccio di sangue cova il suo fermento già da tempo, due anni per la precisione: dopo la morte più che sospetta del suo primogenito Ankur, Tulsi ha infatti giurato e progettato una terribile vendetta. Con il ritorno inaspettato dell’altro figlio Chirag tutto prende però una piega imprevista, alimentando una spirale d’odio e violenza senza scampo.

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the hungry2La regista indiana Bornila Chatterjee, tralasciate le derive romantiche dell’opera prima Let’s Be Out, The Sun Is Shining, cerca stavolta di reinterpretare in chiave moderna il Tito Andronico di Shakespeare, trasformando il personaggio della perfida regina (poi imperatrice) Tamora in un’eroina quasi positiva, avvinta da un contrastante dramma interiore tra voglia di giustizia e fame di vendetta. Il risultato della libera rilettura che The Hungry opera, appare tuttavia come la sovrapposizione forzata di una luccicante veste sul congegno shakespeariano, e nel percorso narrativo emerge tutta la sua fatica nello stabilire una fluida interconnessione tra i segmenti messi in circolo dalla sceneggiatura. La carica drammaturgica inniettata nel moto degli eventi, non riesce a scrollarsi di dosso la persistente sensazione di una messa in scena eccessivamente macchinosa, artificiosa, che decuplica continuamente gli spunti dell’azione disperdendoli poi in un pathos diluito, languido, che perde in più punti l’occasione di raggrumarsi in reali scariche energiche. La cura compositiva e la minuta levigatezza fotografica, con i suoi colori e un uso della luce così patinati da far dimenticare l’intensità coinvolgente della grana cromatica della filmografia indiana, diventa così lo specchio di un’opera che stenta ad andare oltre la sua patina di confezionamento. Lo svolgimento della trama, con le sue digressioni, gli snodi paralleli e gli shot estatici, arranca nell’acquisire densità, voracità, movimento e suspense, e trova solo nella seconda metà del film finalmente un po’ di corpo, di colore, di volgare crudeltà che (solo in piccola parte) riscattano le sfasature e gli scollamenti del plot tragico. Ma i godibili umori splatter che The Hungry intercetta, o la buona prova interpretativa del divo bollywoodiano Naseeruddin Shah nei panni del villain spietato e a sangue freddo Tathagat, da soli non fanno un film, soprattutto un’opera che si muove da premesse tanto ambiziose.

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