#RomaFF12 – The Place, di Paolo Genovese

Dalla serie tv USA The Booth and the End, fighettino quanto basta, estetizzante quanto basta. Con l’Italia fuori-campo. E noi ci immaginiamo a distanza per vedere tutto in campo-lunghissimo

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Dei ‘perfetti sconosciuti’ davanti uno sconosciuto. Valerio Mastandrea/Faust/Angelo/psicologo o lo sceneggiatore nascosto. Che su quel quaderno, mentre prende appunti, è come se costruisse uno script mentre i personaggi gli appaiono davanti. Potrebbero essere dei fantasmi felliniani che gli passano davanti. Sta sempre seduto sempre nello stesso tavolino di un bistrot, The Place appunto. Con insegna luminosa fuori. Può esaudire i desideri di nove sconosciuti. Ma per ognuno di loro c’è un prezzo da pagare. E molte volte appare oltre le loro possibilità.

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Dalla tavola della cena di Perfetti sconosciuti. Al tavolino di The Place. In un cinema corale chiuso dentro un luogo. Come era accaduto anche in Una famiglia perfetta. Una ‘ronde’ con derive da Robert Altman ma anche sulla linea di quel cinema corale di Ettore Scola, come La famiglia e soprattutto La terrazza o La cena. “Come faccio a sapere che lei non è il Diavolo?”. Come se annunciassero quegli slanci fantasy ce però non prendono veramente forma.

the place silvia d'amico silvio muccinoAlla base di The Place c’è la serie tv statunitense The Booth and the End trasmessa su Netflix. Ma chissà se Genovese e la co-sceneggiatrice Isabella Aguilar hanno mai visto i Wachowski di Sense8. Soprattutto in quelle connessioni tra i vari personaggi che prendono forma. Qui però i luoghi dove avvengono le azioni sono dichiaratamente nascoste. Vengono solo raccontate. In un cinema tutto di scrittura, di campi/controcampi, dove si alternano Giulia Lazzarini, Marco Giallini, Vittoria Puccini, Silvia D’Amico, Silvio Muccino, Alessandro Borghi, Alba Rohrwacher, Rocco Papaleo e Vinicio Marchioni. E dietro c’è la testimone silenziosa, Sabrina Ferilli, nei panni della cameriera.

the place giulia lazzariniÈ già tutto delineato The Place, tutto costruito. Non c’è spazio per nessuna sorpresa. Esercizi di stile. In un cinema dove sembra che la stessa soluzione si replica all’infinito. Un ‘teatro filmato’ che sembra fatto, come in Perfetti sconosciuti, per esaltare le performances degli attori. Ma anche in questo caso, malgrado la sovraesposizione, si ha l’impressione che restano in ombra. In un cinema che punta alto, che fa vedere i meccanismi della tecnica. Come dei saggi da Actor’s Studio. Dove ogni interprete si esercita, davanti ai nostri occhi, per entrare nel personaggio. Se queste però sono le nuove e migliori tendenze del cinema italiano, non c’è da stare contenti. Fighettino quanto basta, con derive estetizzanti quanto basta. In un cinema che racconta ancora l’Italia dove l’Italia è fuori-campo. Ma piace così. In questa situazione si cerca uno sguardo lontano dai personaggi e dalle loro storie. Ci si immagina fuori il The Place. Dall’altro lato della strada. O in una finestra di un palazzo lontano. Dove possiamo vedere tutto in un campo-lunghissimo. E di Sunny e A chi resta solo un eco lontano. Come quello che proviene da un locale con la musica troppo alta.

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