#RomaFF13 – An Impossibly Small Object, di David Verbeek

Tra le sbandierate “stratificazioni urbane” e le complesse “disconnessioni umane” , alla fine è ancora la profonda ricerca dei sentimenti a muovere l’immagine di un film ridondante ma sincero.

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Un giovane fotografo olandese (interpretato dallo stesso regista…) è seduto davanti ai suoi abituali galleristi che lo interrogano su una nuova possibile mostra. Una serie fotografica ancora tutta da formare, ma che ha un punto di partenza già rivendicato: la fotografia di una bambina taiwanese con un aquilone illuminato, scattata pochi giorni prima a Taipei, è l’ossessione di David. I due galleristi chiedono quale sia “l’intenzione” di questa foto, che cosa possa raccontare in poche parole, ma lui sa solo alludere a infinite linee di narrazioni possibili… An impossibly Small Object può partire: si “entra” in quella foto, il film da bianco e nero diventa a colori, la periferia di Taipei è come l’abbiamo conosciuta guardando i film di Edward Yang o Tsai Ming-liang. La bambina, Xiao Han, vive una vita tranquilla insieme ai suoi genitori, sino alla notizia che il suo migliore amico, Hao Hao, partirà presto per gli Stati Uniti seguendo la ricca famiglia. I temi della crescita, della perdita, della sublimazione del dolore, tornano come tracce universali catturate da un occhio silenzioso che vaga negli spazi e coglie attimi decisivi rubando un tempo a cui aggiungere successivamente  un ragionamento.

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Dove? Ad Amsterdam, nella seconda parte del film, dove tutto sembra filtrato da display e dove l’immagine non si deve più “catturare” ma trattare, comporre, ritagliare, sino a raggiungere una veirtà interiore frutto di una mediazione (anche) tecnica. Tra Oriente e Occidente, però, c’è qualcosa che sfugge: le maschere tradizionali delle parate taiwanesi segnano una traccia atemporale e spirturale, attirando in un “buco nero” ogni “intenzione” o “narrazione” come fa teorizza una vecchia signora che David incontra sull’aereo di ritorno.

Eccoci al punto: il giovanile impeto metalinguistico di Verbeek, con le sue continue domande sullo stato delle cose dell’immagine (cinematografica), apparentano questo film alle riflessioni del cinema moderno anni ’60-’70 (tra Antonioni e Wenders). Insomma il giovane regista cerca sin da subito le referenze di un’altissima autorialità europea che interroghi l’immagine alla ricerca di una (im)possibile verità: ingrandendola con blow up  o modificandola con computer grafica, alla ricerca di una traccia di verità. Un occhio che prima si perde nelle strade e tra la gente (a Taipei) e poi si rinchiude in una stanza piena di schermi (ad Amsterdam) opponendo schematicamente tempo e spazio. Questa seconda parte, evidentemente è la più problematica di un film sin troppo appesantito di quesiti teorici… sì, ma sotto queste alte riflessioni sbandierate e un po’ datate Verbeek aspira sinceramente a narrazioni pure. Quella fotografia allude ai ricordi più intimi, all’assolutizzazione dei sentimenti non (rin)tracciabili o riproducibili, bensì catturati dall’immagine come un flebile eco di vita. Come un oggetto impossibilmente piccolo. Ecco che tra le sbandierate “stratificazioni urbane” e le complesse “disconnessioni umane” che David cerca di spiegare inutilmente alla ex compagna Severina, alla fine è ancora la profonda ricerca dei sentimenti a muovere un film ridondante ma sincero.

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