#RomaFF13 – Bayoneta, di Kyzza Terrazas

Bayoneta è la cosa più lontana dal “solito film sulla boxe” di matrice statunitense. Qui il pugilato è un mondo fatto di droga, alcol e incontri truccati, ambientato in Finlandia

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Miguel Galìndez è un ex pugile messicano, originario di Tijuana, che dopo la tragica conclusione di un incontro si trasferisce in Finlandia, a Turku. Pur avendo appeso i guantoni al chiodo, Miguel continua a lavorare qui come allenatore in una palestra, alternandolo a lunghe bevute in solitaria in bar notturni. Dopo un incontro andato male ad un pugile della sua scuderia, quindi in difficoltà economica, comincia a pensare di tornare sul ring e riprendere il nome da battaglia di “Bayoneta“.

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Presentato in Selezione Ufficiale alla Festa di Roma, Bayoneta è il secondo lungometraggio di Kyzza Terrazas dopo Il Linguaggio dei Machete. Non volevamo fare il solito film sul pugilato” ha affermato lo stesso regista messicano alla stampa, e infatti di Rocky e simili, nel suo film, c’è solo l’inusuale preparazione fisica del protagonista (interpretato da Luis Gerardo Méndez), che nel gelo finlandese prende a martellate un copertone, invece di picchiare la carne in una cella frigorifera come Stallone. Per il resto Bayoneta è la cosa più lontana dal “solito film sulla boxe” di matrice statunitense. Qui il pugilato è un mondo fatto di droga, alcol e incontri truccati; serve sicuramente al protagonista per rialzarsi, nel proprio percorso di redenzione, ma allo stesso tempo è anche la causa delle sue disgrazie. Esattamente come il vecchio soprannome che tutti continuano a ricordargli, ricordo del glorioso passato che fu, ma anche marchio indelebile del trauma che lo perseguita.

Non è un caso poi che Terrazas abbia scelto proprio la Finlandia come sfondo alla vicenda. Attraverso una fotografia fredda e asciutta, l’ambientazione appare infatti come congelata, rispecchiando perfettamente l’immobile esistenza di Miguel. “Bayoneta” non riesce ad andare avanti, viene mostrato isolato dal resto del mondo; pur parlando in messicano, inglese o finlandese, comunica con i silenzi, con gli sguardi, senza venire mai compreso davvero, neanche dallo stesso spettatore. Nelle relazioni personali allora fugge, lo ha fatto a Tijuana, dove ha lasciato moglie e figlia e continua a farlo in Finlandia, facendogli capire che che forse rifugiarsi nel posto più distante possibile (non solo geograficamente) dal “suo” Messico, non lo aiuta a stare meglio. La figlia e il suo paese natio sono infatti ancora lì, per quanto voglia dimenticarli, e il regista li mostra insieme con forti colori e accompagnati dalle festanti note messicane, in un sapiente gioco di contrapposizioni ad aumentare ulteriormente l’alienazione del protagonista.

C’è un cervo ad attirare le attenzioni di Miguel, che gli si ripresenta davanti ad intervalli regolari per tutto il film, senza che mai si capisca davvero se sia un parto della sua mente o visibile anche agli occhi delle altre persone. A domanda diretta sul suo significato, il regista ha risposto che “ognuno può vederci quello che vuole“, confermando in pieno lo spirito della sua opera. Bayoneta non dà risposte, se non una, quella più ovvia, sul traumatico episodio passato del pugile, ma non illustra mai i pensieri dell’ex pugile, né tantomeno ne spiega le azioni. Intende sfuggire alle retoriche della cinematografia sulla boxe, talmente tanto da evitare perfino le normali dinamiche empatiche tra protagonista e spettatore. Vuole solo mostrare stralci di un’anima confusa e tormentata, che decide di affrontare i propri fantasmi, ma senza dare assolutamente per scontato che alla fine ci debba riuscire. E in questa storia vera, ed estremamente reale nella sua fallibilità, non si può certo dire che Terrazas non abbia raggiunto in pieno il suo obiettivo.

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