#RomaFF13 – Fahrenheit 11/9, di Michael Moore

Sorta di recap dell’intera attività di Moore, come se sentisse il bisogno di tornare sui propri temi-chiave per un aggiornamento ciclico e costante, update in qualche maniera necessario e seriale

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Il discorso di Fahrenheit 11/9 parte verosimilmente da Michael Moore in TrumpLand, il suo special teatrale registrato nelle roccaforti del voto repubblicano USA (visibile su Amazon Prime): è in quell’occasione che Moore fa i conti, con l’abituale potenza di fuoco che va a segno per tante quante volte lisci il bersaglio, con le argomentazioni e le contraddizioni della destra americana. Il suo nuovo documentario è piuttosto allora un’occasione per riflettere sulle colpe dei democratici, da Bill a Hillary Clinton via Barack Obama, nei confronti del risultato delle votazioni del 9 novembre 2016, con relativa vittoria di Donald Trump.
Con l’usuale sfacciataggine, Moore costruisce la gittata dalla consapevolezza lucidissima di essere parte integrante e ultra-esposta di questa stessa storia politica, e che con ogni sua apparizione televisiva, video in diretta sulla propria pagina facebook, partecipazione ad un comizio o ad una manifestazione, abbia contribuito ad integrare attivamente il racconto di questi anni di “opposizione”. Se è vero che la struttura subito riconoscibile dei pamphlet dell’autore, tra crowdsourcing, data journalism spinto e infografica a ritmo sostenutissimo, è oggi il linguaggio comune parlato da qualunque reportage – web e non – con approccio citizen, quello che è venuto a mutare negli anni è proprio la presenza di Moore in scena, che qui entra a far parte dello stesso footage recuperato dal furioso zapping del montaggio, come se il Moore regista avesse deciso di utilizzare il Moore personaggio pubblico come un’ulteriore pedina della propria verifica incerta di materiali spuri tra network e internet.
Tanto che l’unica azione diretta del vecchio Moore disturbatore (innaffiare il giardino della villa del governatore di Flint, nel Michigan, con un’autoclave piena dell’acqua avvelenata dei condotti idrici della cittadina) sembra quasi stonare nella parabola formale del documentario, come spesso accade con le scomposte performance “dimostrative” del nostro.

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Per il resto, Fahrenheit 11/9 appare anche per questi motivi come una sorta di recap dell’intera attività di Michael Moore, tra Roger & Me e Bowling a Colombine, oltre chiaramente al titolo anti-Bush di cui rovescia il data, e che gli era valso la Palma d’Oro: davvero come se Moore sentisse il bisogno di tornare sui propri temi-chiave per un aggiornamento ciclico e costante, un update in qualche maniera necessario e seriale.
In questa maniera il cineasta rievoca la modalità con cui, attraverso le storie della sua Flint, “la città più povera d’America”, è puntualmente possibile spiegare quello che accade in tutto il Paese: il j’accuse sul caso dell’inquinamento dell’acqua corrente è di sicuro la freccia più potente nell’arco del film, insieme al racconto di fasce di popolazione che urlano il proprio bisogno di tornare ad una sinistra che non abbia paura delle proprie posizioni morali e dei propri valori anticapitalistici, una nuova generazione di futuri leader donne e non WASP, la riscoperta dell’origine comunitaria del credo redneck, l’orgoglio del corpo insegnante come base su cui poggia l’educazione della nazione, e i ribelli adolescenti che si organizzano attraverso i social e gli smartphone.
Sono le proposte di Moore per recuperare alla desolazione lasciata dai leader moderati dei dems, e per evitare che Trump prenda sul serio l’ultima sua minacciosissima barzelletta, quella di restare Presidente a vita. Contro cui il documentarista schiererebbe il vero, grande, già leggendario fantasma tradito dai suoi stessi compagni che anima questo film: quello di Bernie Sanders.

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