#RomaFF13 – Halloween, di David Gordon Green

Così debitore e influenzato dalla presenza di Carpenter che questo remake appare continuamente frenato. La parti migliori sembrano del produttore Jason Blum. Poi però c’è Jamie Lee Curtis

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L’incubo ritorna ogni vent’anni per Laurie Strodie/Jamie Lee Curtis. Dalla tragica notte di Halloween del 1978 del monumentale cult di John Carpenter in cui la protagonista è rimasta viva per miracolo, alla resa dei conti del 1998 con la versione diretta da Steve Miner  (Halloween 20 anni dopo), Laurie e Michael Myers tornano a fronteggiarsi ancora. La donna non ha mai superato lo choc di quella notte. E, nel corso degli anni, la figlia Karen (Judy Greer) fa di tutto per evitarla. Però è legatissima alla nipote Allyson (Andi Matichak). E quando la notte del 31 ottobre, la ragazza è in pericolo dopo che il serial killer è evaso durante il trasferimento in un altro penitenziario, la donna troverà finalmente l’occasione per soddisfare la sua sete di vendetta.

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Il debito verso Carpenter è apertamente dichiarato. Del resto lo stesso cineasta del capostipite della saga segna in modo evidente questa versione firmando la colonna sonora oltre ad essere anche tra i produttori esecutivi. Inoltre la sua presenza già si avverte nel look dei titolo di testa -sempre sull’asse Carpenter/Debra Hill – che seguono un prologo in cui già si evidenziano due motivi ricorrenti: il tempo (l’orologio) e lo spazio (la linea di confine gialla da non oltrepassare mente Michael Myers è di spalle). Il coinvolgimento di Carpenter però da una risorsa è diventato un limite. David Gordon Green ha come paura anche lui di oltrepassare quella linea. Non è Rob Zombie che con i suoi due Halloween li ha personalizzati con il fuoco, l’inferno e la musica. Green è un esecutore. Del resto ha dato l’impressione di esserlo sempre stato. Che rimbalza tra storie realmente accadute e remake. A volte i risultati sono migliori (Stronger, Prince Avalanche), a volte più deludenti (All’ultimo voto, Manglehorn).

Green ha studiato così bene Halloween da esserne diventato la sua ossessioni. E le parti migliori (la stazione di servizio, l’omicidio dell’amica di Allyson che lavora come baby-sitter) sembrano uscire più dalle ossessioni horror del produttore Jason Blum, soprattutto per come lo spazio può diventare mobile, restringersi e diventare una specie di trappola. Che forse è proprio lui che, oggi, può tenere in vita un genere che tra gli anni ’70 e ’80 ha dato il meglio ma dove è stato spinto oltre le proprie possibilità. Quindi la maschera, la semi-soggettiva di Myers con il coltello nella casa dove uccide la donna, il pullman ribaltato dove Myers evade sono oggi soluzioni che, se non hanno una particolare inventiva nella messinscena, appaiono solo replicare forme e narrazioni di un genere. In più, spazia tra troppi personaggi perdendo sia quello del carnefice che della vittima in cerca di vendetta. Con in più, appesantimenti di scrittura che caratterizzano figure come il dottore erede del Loomis/Donald Pleasence di Carpenter. Che studia ed è attratto dal male. Ma con una risoluzione troppo semplicistica. Bisogna quindi scegliersi il personaggio da seguire. Qui si sceglie ancora una volta Jamie Lee Curtis; è la sua Laurie Strode forse il vero elemento di attrazione.

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