#RomaFF13 – Hot Summer Nights, di Elijia Bynum

Un racconto di formazione con protagonista Timothée Chalamet, dove la realtà si confonde con le storie divenute, con il loro passaggio di mano in mano, leggende da raccontarsi, di nuovo, ogni estate

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Estate 1991, l’anno della morte di Freddie Mercury, della prima guerra del Golfo e dell’uscita di Terminator 2, come Hot Summer Nights non manca di sottolineare in alcune delle tante dislocazioni dalla chiave dichiaratamente pop, a voler indicare a chiare lettere il tentativo di imprimere al film un’estetica ben precisa. Un’estetica che, a partire da quella moda nostalgica ormai abusata fino allo sfinimento tanto dalle serie quanto dal cinema, insegue qui, con tanto di divisione in capitoli temporali che cercano l’effetto vintage del VHS, i magnifici nineties.
A narrare gli eventi di quella stagione trascorsa a Cape Code, in una delle tante e tutte uguali cittadine balneari statunitensi, alla perenne ricerca di un equilibrio estivo tra il bestiario dei locali e la fauna dei vacanzieri, è un tredicenne che, come infine svelerà Elijah Bynum, spia affacciato ad una finestra le traiettorie tracciate dai corpi di Daniel, Hunter e McKayla, lasciando che la realtà confonda e a sua volta venga confusa nelle storie divenute, con il loro passaggio di mano in mano, leggende da raccontarsi, di nuovo, ogni estate. Sta proprio qui l’aspetto più interessante del primo lungometraggio firmato da Bynum. Ovvero tentare di farsi canto della sospensione ed esperienza di un viaggio, dove l’unica geografia possibile è quella di una terra di mezzo.
hot-summer-nights-filmL’essere “tra” diventa allora l’architrave, tutto giocato sulla stratificazione dei suoi predicati, di Hot Summer Nights. Il 1991 come tempo di transizione, dalle connotazioni ancora troppo incerte, tra una decade e l’altra, la moltiplicazione dell’idea, dagli echi kinghiani, del passaggio generazionale, con il tentativo del Daniel di Timothée Chalamet di trovare una collocazione e un’appartenenza nel suo affacciarsi dall’adolescenza all’età adulta, visto attraverso la voce di ragazzino anche lui su un ciglio, questa volta tra infanzia e adolescenza. Il tutto mentre il mondo adulto rimane una presenza che si muove solo ai margini del film, facendo, infine, precipitare il regno del possibile di Daniel, Hunter e McKayla nella violenza delle sue categorie e delle sue certezze. Ed è proprio l’essere “tra” a informare il tono stesso del film, Bynum ha l’intuizione di muovere il racconto in un cortocircuito tra realtà e orizzonte mitico, in modo da creare un’immagine sospesa, con i protagonisti di Hot Summer Nights ritratti come fossero in bilico tra la verità della loro presenza, dei loro desideri e delle loro paure, e la rielaborazione, in chiave leggendaria, che si riflette negli occhi di chi rivede la loro storia.
Peccato però che Bynum, soprattutto nella seconda metà del film, non riesca a gestire uno schema narrativo di grande impatto, ma forse troppo ambizioso. Mentre nell’immagine dell’uragano che si addensa sull’estate di Cape Code si specchia la caduta rovinosa di Daniel, tra spaccio di droga e incapacità relazionale, le intuizioni di Hot Summer Nights progressivamente scivolano in un più convenzionale racconto di formazione, dove nonostante i tanti sforzi messi in atto da Timothée Chalamet, il film va via via perdendo la sua iniziale presa empatica. Non riuscendo a trovare la chiave di volta del lavoro di stratificazione compiuto nella prima parte, Bynum cambia passo e anziché lasciarsi completamente andare al caos sul quale Hot Summer Nights costruisce le sue premesse, finisce per imboccare la scorciatoia della letteralità.

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