#RomaFF13 – If Beale Street could talk, di Barry Jenkins

Tratto da un romanzo di James Baldwin, il film conferma Barry Jenkins come nuovo faro autoriale del cinema afroamericano di oggi.

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“Non mi è mai piaciuta la parola artigiano. Non la capisco” dice a un certo punto Fonny, da dietro il vetro del carcere, all’amata Tish. Lui lavora il legno, realizza oggetti che sembrano sculture astratte. Immagina spazi. E tra questi anche la casa che abiterà insieme alla sua compagna, in quella che forse è una delle scene più belle di questo terzo film diretto da Barry Jenkins e tratto dal dolente romanzo di James Baldwin, If Beale Street could talk. Insomma Fonny non è un artigiano ma un artista. Come Jenkins, il cui cinema – magnificamente fotografato anche stavolta da James Laxton – divampa artisticamente, cerca la bellezza nel dolore e viceversa.
Siamo ad Harlem all’inizio degli anni ’70. Fonny ha ventidue anni, Tish diciannove. Si conoscono da bambini. Si amano. Provano a costruire qualcosa insieme, sopravvivendo ogni giorno alle leggi della strada e a quelle della discriminazione razziale. Poi arriva l’accusa di stupro, dettata da vizi procedurali e testimonianze sospette. Fonny finisce in galera e Tish dovrà partorire e forse crescere da sola il figlio che porta in grembo.

Harlem è lo stesso quartiere in cui nacque e crebbe James Baldwin, che scrisse questo romanzo nel 1974. Esule in terra francese per gran parte della sua vita, Baldwin – protagonista del bellissimo documentario I’m not your negro di Raoul Peck – è sempre stato narratore e saggista lucidissimo sulle condizioni sociali, politiche e culturali della comunità nera in America. Ma è stato anche un intellettuale adottato dall’Europa (la Francia in particolar modo). E qui risiede una correlazione forse non trascurabile con la visione cinematografica di Jenkins, che probabilmente è, con Wes Anderson, il cineasta americano più “europeo” e stilisticamente rètro della sua generazione.

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Di fatto If Beale Street could talk conferma il regista di Moonlight come il principale faro autoriale della nuova generazione del cinema black. Se Spike Lee è stato per anni il lume tutelare e la voce polemica rivoluzionaria e i Singleton, Fuqua, Gary Gray i talentuosi “artigiani” (parola utile ma sempre strana quando viene applicata al cinema) con cui consolidare una posizione e piazzare dei classici (Boyz ‘n the Hood, Training Day, Straight Outta Compton), con il regista di Moonlight si arriva a una dichiarata legittimità arty. Il suo è un cinema politico ed elegante. Un upgrade che impasta l’impegno civile con i cromatismi di un Wong Kar-wai, cineasta amatissimo e qui una volta ancora citato, riletto, assaporato. Questo formalismo porta con sé un sospetto di calcolo estetizzante difficile da allontanare. E Jenkins, certo, corre il rischio di anelare a un cinema accademico in ritardo sui tempi del contemporaneo. Ma se il fine ultimo è ritagliarsi particelle di desiderio cristallizate nel tempo, completare l’alfabetizzazione di una comunità e portare alla propria gente (dei ghetti americani… dei ghetti di tutto il mondo!) il melodramma viscontiano che stava aspettando da anni e che non ha mai avuto, allora ben vengano le carrellate, i primi piani, i riflessi e le lacrime di If Beale Street could talk. Sono pulsazioni che lasciano tracce. E le emozioni scorrono nelle vene delle immagini.

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