#RomaFF13 – Il flauto magico di Piazza Vittorio, di Mario Tronco e Gianfranco Cabiddu

Rilettura dell’opera di Mozart, versione cinematografica dello spettacolo omonimo dell’Orchestra di Piazza Vittorio, il film è un’astrazione colorata e melodica da una dimensione fin troppo reale

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“Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre coste affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata.
Emma Lazarus

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Prima dell’immagine e la musica, prima degli eventi e la Storia, le parole. Quelle della poetessa Emma Lazarus immortalate ai piedi della Statua della Libertà, che rappresentano la genesi, l’ideale primitivo del sogno americano e la citazione che apre pure la dimensione onirica – forse anche utopica – di Il flauto magico di Piazza Vittorio, di Mario Tronco e Gianfranco Cabiddu, presente alla sezione eventi speciali del RomaFF13. La rilettura dell’opera di Mozart – narrativa e musicale – messa in scena dalla multietnica Orchestra della Piazza e tratta dallo spettacolo omonimo che ebbe il suo debutto nel 2009, è l’astrazione colorata e melodica di una realtà concreta, a volte grigia e persino brutale che mette insieme immigrazione, precarietà, razzismo e povertà, svolgendosi sempre sul palcoscenico di Piazza Vittorio, a Roma. Ma questa volta con la Regina della notte, Pamina la principessa rapita, Tamin il principe azzurro, il fedele scudiero Papageo e anche Omar, custode del regno di Piazza Vittorio. Una dimensione che si costruisce, attraverso effetti visivi volutamente esposti e “artigianali”, in una sorte di entropia, guardando dentro se stessa e ripiegando tutti i suoi strati possibili, diventando anche una re-interpretazione del documentario L’orchestra di Piazza Vittorio di Agostino Ferrente, sulla creazione del gruppo fondato dal proprio Mario Tronco.

La genesi del sogno americano come declamazione di apertura non sembra del tutto

esagerata. Piazza Vittorio potrebbe essere anche una sorta di porto, di faro in mezzo un oceano in tempesta, una dimensione che diventa un vortice dove tutti finiscono in un modo o nell’altro, un posto che reclama “le masse infreddolite desiderose di respirare libere” come se fossero sue, declamando anche un proprio senso di appartenenza e la ricerca di una identità. Ed è proprio la declamazione ciò che diventa il fulcro e lo strumento di lotta del film: la potenza dell’opera lirica, del canto, dell’esagerazione legittimata di un sentimento e un’idea come unica via di costruzione di un mondo voluto, prendendo la sostanza, i tessuti e i volti di un posto e facendoli diventare un’altra versione di essi. Così, il rumore quotidiano si trasforma in sinfonia, i vestiti logorati in costumi d’epoca, le facce sconosciute in maschere da supereroe, la zucca in carrozza, la storia rimasta dall’altro lato del mare in una fiaba con un lieto fine.

Ma il dubbio, comunque, rimane: questo modo di raccontare un luogo riesce a raggiungerlo, ad avvicinarlo, oppure lo rende uno stereotipo, più alieno, più “straniero”? La storia archetipica dietro un racconto classico come quello di Mozart appartiene un po’ a tutti e allo stesso tempo all’immaginario universale e alla riproduzione infinita della stessa storia. Seguendo quella logica, Piazza Vittorio a volte si rende riconoscibile e altre diventa un posto senza tempo né spazio, che può sembrare una foresta nel Caraibi, un bosco in Patagonia, parte della savana africana oppure un angolo nascosto del Central Park. L’inquadratura dello spazio galleggia tra l’ambiguità e l’identificazione di un luogo, così come l’identità che tirano fuori i personaggi, ognuno adattando la narrazione, la estetica, la musica e l’immaginario alla sua propria lingua e cultura. Questa dinamica le da una certa instabilità che può diventare troppo forzata e anche estenuante, ma che una volta entrati nel gioco finisce per entusiasmare, coinvolgere, pure affezionarsi. Almeno, risveglia la voglia di capire come andrà a finire.

Sia o no questo l’approccio giusto, il film si rende innanzitutto una proposta coraggiosa, che non ha paura di ripiegare luoghi comuni, di esagerare, di far intravedere qualche ingenuità oppure di prendere in maniera ludica una problematica sociale – e politica – allontanandosi dall’approccio documentaristico di film come Piazza Vittorio di Abel Ferrara. Il flauto magico di Piazza Vittorio si presenta senza maschere né costumi, come quello che è, un’illusione, un gioco, una fantasia convinta di essere parte del sogno di tutti, o almeno di qualcuno che dorme ogni notte su una panchina a Piazza Vittorio. Forse sì, forse no. Alla fine il cinema non può far conoscere sempre la morale della favola. Ma può diventare sollievo, una luce lampeggiante, un faro in mezzo alla tempesta. L’illusione di credere che, in qualche punto del percorso, ci può essere un lieto fine.

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