#RomaFF13 – Il mare della nostra storia, di Giovanna Gagliardo

Restituzione fotografica di un puzzle multiculturale da cui nessuna tessera, araba ebraica italiana umana, può più essere espunta senza perdere una parte, ineludibile, della propria memoria

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“Città bianca, regina, principessa del mare…”: ha le dimensioni fluide del mito e della nostalgia l’evocazione di Tripoli da parte degli italiani che, nel 1970, vi vivevano da generazioni e che ne furono espulsi. Niente a che vedere con l’arroganza, e persino furia, nominatrice di tutti i primi colonizzatori: da Colombo ne La Conquista dell’America secondo Todorov al governatore libico, Italo Balbo, che battezza “balbia” la litoranea fatta costruire nel “bel suol d’amore” in epoca fascista. La stessa Libia propriamente detta non esisteva sulle mappe ufficiali prima del 1934, quando gli archeologi italiani ne suggeriscono il nome per le colonie unificate di Tripolitania e Cirenaica, attingendo all’Odissea.
La storia coloniale del paese nordafricano si riflette, nella giustapposizione “critica” di filmati dell’Istituto luce, ricordi familiari in 8 millimetri, foto d’archivio, interviste a esuli e storici, ne Il Mare della nostra storia di Giovanna Gagliardo. In mezzo, le ambiguità di ogni fase, dalla ferocia delle deportazioni badogliane ai trasformismi incrociati di Gheddafi e dell’Italia, per denaro, – ai tempi dell’ingresso della Libia in Fiat – o per incapacità, nella pantomima del colonnello “grande amico” degli italiani in era Berlusconi. I rimandi all’attualità più recente – il dramma degli sbarchi e dei loro esodi in un clima di ritornante e smemorata xenofobia – sono del tutto impliciti, e appartengono al fondo inconscio di quel mare che continua a infrangersi, come una domanda, sull’obiettivo della macchina da presa, nei contrappunti del montaggio alternato.

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Mare che non è sfondo ma metafora – ancora una volta femminile per la regista di donne, Giovanna Gagliardo (Maternale, Bellissime, Le Romane), – o piuttosto sineddoche, da Ulisse in poi, di ogni viaggio che aspira al ritorno (impossibile) e al suo dolore, come nell’etimo greco della nostalghia. Punto di congiunzione/separazione tra il bel paese e il popolo del deserto e del vento, onda ribattente come un monito sull’occhio della camera, refrain liquido e musicale – dove il cromatismo si accende e si fa lirico sulle note di Mediterranée di Herbert Pagani in struggente incipit e di Tripoli ’69 di Paolo Conte per voce di Patty Pravo – il Mediterraneo è il mare di una storia che è “nostra” per appropriazione indebita ma anche – nonostante ciò – per passione di chi, discendente dei primi coloni, paga il peccato originale di altri. E il riscatto quando arriva, arriva troppo tardi se l’esule, quarantanni dopo, non ce la fa a rientrare nella sua vecchia casa o rinuncia a tornare nella città del sogno, se non può trovarvi nemmeno le tombe di famiglia, asfaltate per far posto agli alberghi. Una “pacificazione” a colpi di affari (la Libia di Gheddafi, sei anni dopo la cacciata degli italiani, entra in Fiat con una somma pari a quella confiscata agli esuli) e “stupidità”, secondo lo storico africanista Luigi Goglia: “Non si può lavare la coscienza sporca giustificando un dittatore”, lo stesso che troverà morte violenta in patria nell’autunno del 2011. Ma il percorso di riabilitazione del colonnello, con tutte le sue contraddizioni, era cominciato molto prima della messinscena di Gheddafi che si trascina il 90enne figlio dell’eroe della resistenza libica, Omar al-Mukhtar, sulla passerella dell’aereo, a Ciampino, e Berlusconi premier che offre all’ex nemico uno stuolo di ragazze pagate per imparare il Corano: sono del 1976, infatti, in questo intenso film documentario e memoriale, sia lo stralcio “morbido” di una storica intervista di Mario Pastore a Gheddafi nella finzione di una tenda nel deserto, sia il contesto politico internazionale a cui fa riferimento Cesare Romiti parlando, oggi, dei timori e tremori di Gianni Agnelli prima di accettare i soldi libici.

I corsi e ricorsi della storia diventano così, allo specchio marino della coscienza, la parabola degli italiani, da coloni/colonizzatori, di età giolittiana e poi fascista, artefici di una felicità troppo imposta per non essere sospetta, a spodestati dalla seconda guerra mondiale quando piovono bombe inglesi sulla belle epoche tricolore. A ricordarla, anche attraverso scatti di felicità familiari da spiaggia o all’ombra di antiche vestigia romane, il prefetto Annamaria Cancellieri, la produttrice cinematografica Marina Cicogna, Giovanna Ortu, presidente Airl e altri esuli, poi rientrati, nel 1951, su risoluzione Onu, nella Libia indipendente del re Idris, come “stranieri” sia pure “residenti” fino alla rivoluzione di Gheddafi che, nel 1970, confisca i loro beni e li rimpatria in Italia. Ma tra le voci del documentario, tutte intradiegetiche, ci sono anche quelle della comunità di ebrei di lingua italiana che, con la guerra dei sei giorni, annunciata al tg del 6 giugno 1967 da Arrigo Levi, e i pogrom che infiammano il mondo arabo, sono braccati e costretti alla fuga da Tripoli, tra voltafaccia inaspettati (l’amico giornalista che diventa improvvisamente antisemita o gli sputi all’aeroporto dai poliziotti libici) e gesti di solidarietà (le suore che nascondono, negli scaffali di un armadietto vuoto, le bambine ebree).
Un destino narrato anche attraverso i monumenti e le variazioni architettoniche della città: villa Volpi acquistata dal nonno di Marina Cicogna in età giolittiana, poi ridipinta in rosa, all’interno, dal governatore inglese che ne divenne proprietario durante l’occupazione libica degli alleati, quindi restituita a fine guerra alla madre di Marina che la ingrandì, come casa di vacanza, per essere definitivamente abbandonata con l’avvento di Gheddafi in un’incuria che perdura. O l’arco trionfale, la bella architettura apprezzata dai modernisti, inaugurata nel ’37 da Italo Balbo e abbattuta da Gheddafi. Sorte analoga a quella della piazzetta della Gazzella, costruita dagli italiani, da cui è scomparsa la scandalosa nudità della statua muliebre. E inversa a quella della Venere di Cirene, restituita dal governo Berlusconi ai libici in segno di amicizia.
Pezzi, materiali e immateriali, di bellezza e decadenza che la blogger e fotografa, Hiba Shalabi, sta cercando di conservare attraverso l’hashtag “salviamo la città vecchia”: restituzione fotografica di un puzzle multiculturale da cui nessuna tessera, araba ebraica italiana umana, può più essere espunta senza perdere una parte, ineludibile, della propria memoria.

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