#RomaFF13 – Incontro con Martin Scorsese e il suo cinema italiano

Premiato alla carriera da Paolo Taviani, Martin Scorsese ha guidato il pubblico in un viaggio verso il cinema italiano del dopoguerra, che l’ha formato come regista e ispirato per tutti i suoi film

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Credo che Martin Scorsese faccia parte di quella categoria di registi poco frequentata che ci fa subito capire chi siamo. È un lavoratore instancabile dalla furibonda energia, è prima un demonio alla Dostoevskij, poi un innamorato dell’amore, poi un santo. È anche un uomo tormentato, non a caso Kurosawa lo ha scelto per interpretare Van Gogh, dove è stato bravissimo. Per questo l’ho molto invidiato, io ho sempre voluto fare anche l’attore ma non ci sono mai riuscito. Ha una fiducia illimitata in sé stesso. I giovani lo adorano, la sala oggi infatti è piena. Ma la cosa più incredibile è l’amore che ha per il cinema, tutto. Oggi l’ha fatto rivivere anche a me. E quindi a nome del cinema italiano gli consegno questo premio!” Con queste parole Paolo Taviani consegna il premio alla carriera a Martin Scorsese. Questo amore per il cinema italiano il regista americano lo ha fatto rivivere a tutti i presenti che si sono accalcati ieri pomeriggio per partecipare all’incontro. Incontro che neanche per un attimo si è spostato da quel cinema con cui Scorsese si è formato, quello che gli ha cambiato la vita, che va dal dopoguerra fino agli anni 60. Quello che fin da piccolo gli è sempre sembrato incredibilmente vero, che per lui non è mai stato finzione ma sempre e solo realtà. E che non è mai finito. Negli ultimi anni Scorsese ha restaurato con la Cineteca di Bologna 15 titoli italiani, e 29 film muti e corti con la Biblioteca del Congresso. È per questo amore che Scorsese ha esortato i presenti a “combattere il sistema sostenendo i nuovi cineasti italiani, che sono molti“.

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Per l’incontro di ieri il regista ha scelto nove clip di alcuni dei i suoi film preferiti da commentare con il pubblico. Inizialmente dovevano essere quattro, ma il regista ha telefonato per chiedere di poterne selezionare cinque. Poi sette. Ne ha conquistate nove, senza seguire un ordine di preferenza, ma raccontando quando li ha visti e soprattutto cosa quei film hanno scatenato in lui. “Furibonda energia” è un’espressione perfetta. Il volto del regista si accende dopo ogni clip, non è facile per il moderatore interromperlo per passare a quella dopo. Scorsese si ricorda tutto, parla velocemente, ride all’improvviso e mentre l’interprete traduce torna subito serio e riflessivo. La prima scelta è la scena finale di Accattone di Pier Paolo Pasolini, quella della morte di Accattone: “L’ho visto per la prima volta al New York Film Festival. Era il 1963. Fu un’esperienza fortissima. Il primo film che avevo visto al cinema fu Fronte del porto di Elia Kazan. Ovviamente mi era piaciuto moltissimo, ma con Accattone fu una cosa del tutto diversa. Io sono cresciuto in un quartiere durissimo di New York. Mi sono subito identificato. Non avevo la minima idea di chi fosse Pasolini, ero sotto shock. Quello che più mi aveva sorpreso era il concetto di santità dell’anima umana. Accattone fa parte dei poveri, degli infimi, prima di morire esclama: “Ora sto bene”.  Muore fra due ladri, uno si fa il segno della croce all’incontrario… la prostituta si chiama Maddalena. Sono le persone della strada quelle che per me sono le più vicine a Cristo, tramite la loro sofferenza. Pasolini me l’ha fatto capire subito. Negli anni ho letto tutto quello che si poteva leggere su di lui, non è stato facile per la lingua, penso anche alle poesie che davvero non erano traducibili. Ho imparato moltissimo da Pasolini. Per esempio la musica di Bach durante la morte di Accattone. Ho usato Bach anche in Casinò che è un film che parla di un paradiso da cui alla fine i personaggi vengono esclusi… della tragedia della morte di una persona che viene dimenticata.

Si passa a Rossellini con La presa al potere da parte di Luigi XIV. Scorsese racconta di aver visto anche quello al festival di New York, Rossellini si trovava nella Grande Mela. Ma non è lì che il giovane cineasta ha avuto modo di incontrare il regista romano (di cui ama alla follia tutta l’intera cinematografia): “Rossellini l’ho incontrato a Roma nel 1970. Passeggiavo per strada con il selezionatore di un festival e parlavamo proprio di Rossellini. All’improvviso il selezionatore me lo indicò per strada. Mi presentai e iniziammo a parlare, gli parlai de La presa al potere di Luigi XIV, di quanto era piaciuto in America, della sua valenza artistica. Lui mi disse che l’arte non gli interessava, gli interessava solo il valore didattico, l’educazione. Rossellini ad un certo punto si è accorto che l’arte era rivolta troppo verso l’interno e ha ritenuto importante fare film didattici, rivolti a tutti. Ma dentro questo film c’è tutto, c’è Velazquez, Caravaggio. Non c’è narrazione astratta, c’è dettaglio. Questo film mi ha molto aiutato durante le riprese di Toro Scatenato e Re per una notte.

 

Analizzando la scena del ballo de Il Gattopardo, Scorsese passa  al macrocosmo di Visconti, in questo caso il mondo aristocratico (che lo ha ispirato per L’età dell’innocenza)  osservato attraverso la tenuta di Donna Fugata (da cui proviene la nonna del regista che nel 1910 emigrò in America): “L’opera di Visconti è sempre un melodramma senza limiti orientato al politico. Rocco e i suoi fratelli ad esempio, ispirò moltissimo me e De Niro per la realizzazione di Toro Scatenato. De Il Gattopardo vidi la versione di due ore americana doppiata… Poi per fortuna ho rimediato… Amo da impazzire il modo in cui Visconti sottolinea il passaggio del tempo per il Principe di Salina, il modo in cui si avvicina alla morte e capisce come i valori stanno cambiando, anche se rimarranno sempre uguali”

Il regista milanese per Scorsese è lussureggiante, al contrario di Michelangelo Antonioni di cui mostra una scena de L’eclisse: “Le inquadrature di Antonioni sono sempre scarne.  L’avventura, La notte e L’eclisse furono delle visioni difficilissime per me. Dovetti proprio imparare a “leggere” Antonioni. Sono una persona iperattiva, ma sono comunque cresciuto con l’epoca d’oro del cinema classico americano… sono bravissimo quindi a stare quieto e ad osservare per molto tempo una singola inquadratura. Io ho imparato a guardare il cinema italiano con L’avventura. Antonioni mi ha insegnato a ragionare sul ritmo ma soprattutto sullo spazio, raccontato con il buio, poi con la luce, con le ampie inquadrature… Qualcosa di molto simile all’arte moderna, una narrazione analitica. Antonioni ha ridefinito il linguaggio cinematografico, che poi non poteva che sfociare in Blow Up e Zabriskie Point.

Le clip continuano e così questa lunga chiacchierata, che più che una lezione di cinema sembra un viaggio nella memoria di un regista che attraverso i bei film italiani formava la sua poetica e riscopriva le sue radici. Per questo la scelta di Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, dove la madre che piange sul corpo del figlio diventa il simbolo de la Madre e non una madre qualsiasi:” Sono cresciuto con quello che vediamo in questa scena. Rosi ti raccontava i fatti mostrandoti al contempo che i fatti non sono mai del tutto la verità, portandoti più in fondo, verso le radici della corruzione. E quindi la tragedia del Sud, la povertà. Penso sempre ai miei nonni, a come non si fidassero delle istituzioni una volta arrivati in America. La tradizione che avevano alle spalle pesava.”
Si continua con Umberto D di Vittorio De Sica e con Divorzio all’italiana di Pietro Germi.  Per ogni film Scorsese ha molto da dire, per ogni film occorre interromperlo, perché si potrebbe fare notte. Umberto D è un film incredibile, “dove attraverso la storia di un anziano qualunque De Sica ci racconta il cambio della società, e lo fa sentimentalmente, con musica e cani che chiedono l’elemosina, ma senza mai essere sentimentalista.” Il film di Germi invece gli è servito tantissimo per raffinare la componente umoristica del suo Quei Bravi Ragazzi con “l’arguzia che passa anche attraverso i movimenti di macchina, l’uso dello zoom nell’arringa dell’avvocato, la macchina da presa che si avvicina Mastroianni il volto. Le riprese di quella Sicilia in bianco e nero… L’elemento satirico che è immediatamente verità.

Si chiude con la scena finale de Le Notti di Cabiria, che per lui rappresenta una vera e propria rinascita spirituale: “Fellini l’ho conosciuto nei primi anni 70. Il primo film che vidi fu La Strada, lo davano in televisione e noi a casa avevamo un apparecchio piccolo piccolo. Negli anni 90 dovevamo anche girare un documentario insieme ma poi è venuto a mancare. Ricordo che cercavamo gli esterni e poi decidevamo di fermarci in una location specifica solo perché c’era un bel posto per  mangiare… Lo faccio ancora oggi.” E mentre lo dice scoppia a ridere, contagiandoci tutti.

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