#RomaFF13 – Incontro con Michael Moore

In occasione della presentazione del suo ultimo documentario, Fahrenheit 11/9, il regista all’Auditorium a briglia sciolta su Trump, Salvini, Di Maio, crisi della sinistra e del giornalismo

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Un Michael Moore vulcanico quello arrivato oggi alla Festa del Cinema di Roma in occasione della presentazione del suo ultimo documentario, Fahrenheit 11/9.

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C’era da aspettarselo, viste le esplicite prese di posizione contro l’amministrazione Trump che hanno caratterizzato l’attivismo politico del regista americano negli ultimi anni.
Il cinema allora diventa un veicolo fondamentale per sedersi a tavolino ed effettuare un’analisi dei motivi che hanno portato l’elettorato a stelle e strisce ad eleggere un presidente tanto controverso, ritenuto da Moore un disastro al pari di George W. Bush: «considererò sempre Bush responsabile di crimini di guerra, avendo invaso un Paese – l’Iraq – che non aveva fatto assolutamente nulla. Lo reputerò per sempre un disastro. Bush e Trump sono due disastri, arrivati entrambi alla Casa Bianca senza aver ottenuto la maggioranza effettiva dei voti alle elezioni. Se il nostro Paese fosse una democrazia oggi sarebbe Hilary Clinton il presidente degli Stati Uniti!».

Nei primi passaggi del film in effetti Moore racconta a più riprese lo stupore dopo un’ elezione che i media ritenevano altamente improbabile (il New York Times addirittura parlò di 15% di possibilità), e tra i colpevoli di questa «catastrofe» figurano certamente anche giornali e tv: «Il problema è che i media vivono nella loro bolla, non vivono per strada, tra la gente. Raccontano le bugie che i politici vogliono far sapere.
Lo hanno letteralmente amato! Perché quello che Trump ha sempre proposto è puro intrattenimento da tabloid, è bravissimo in questo, e ciò ha portato la stampa addirittura a chiamarlo affettuosamente “Il Donald”. Tutti, anche i comici di sinistra ridevano quando lui voleva candidarsi alla presidenza. Tutti mi ridevano in faccia, dicevano che la gente è intelligente: non è vero. La gente è stata manipolata da anni di Ronald Reagan e di politiche di taglio alla scuola e alla cultura!»

I punti di contatto con la situazione politica in Italia sono tanti, forse troppi. Moore si sofferma a parlarne a più riprese, non esitando ad etichettare Salvini come razzista («se Salvini non ama le coppie gay gli consiglio di non sposarsi con un gay, ma non metta il becco nelle storie d’amore degli altri!»).
Prima elogia il nostro Paese per la straordinaria storia, per il cinema, il teatro, la letteratura. Poi ribadisce che – essendosi occupato anche di tematiche come la sanità sia in Sicko che in Where to Invade Next – il sistema sanitario italiano è sempre stato tra i più all’avanguardia nel mondo.
Ma alla luce di ciò «vi prego, ricominciate ad essere italiani. Ma non come qualche politico di estrema destra vuole intendere, prima gli italiani! No. Ricominciate ad essere italiani, perché io non credo a quello che sta accadendo in questo Paese!».

Insomma quella di Moore dai microfoni dell’Auditorium è una vera chiamata alle armi, un appello alle persone democratiche, alla vera sinistra. Lo ammette, parte del problema è dovuto anche alla disintegrazione degli ideali progressisti: «sembrava che per combattere Trump e Berlusconi bastava dimostrarsi poco socialisti». Lo stesso Obama in più occasioni – su tutte quella raccontata nel film, sull’avvelenamento delle acque a Filint, Michigan – ha dimostrato di non essere dalla parte dei cittadini e così «quella fetta di elettorato fatta di donne, giovani ed afro-americani semplicemente non è più andata a votare. Soltanto quando quelle persone torneranno a farsi valere potremo liberarci di Donald Trump. Altrimenti resterà in carica fino al 2025: tempo a sufficienza per distruggere la democrazia!».

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