#RomaFF13 – Las Niñas Bien, di Alejandra Márquez Abella

Un film che certifica la caduta del ceto borghese messicano, raccontato con incursioni televisive e carte di credito bloccate. La borghesia non cade, né risorge, non è Buñuel ma neanche Arriaga

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Quelle brave ragazze, impomatate, sistemate. Sempre in lustro si spostano tra un cocktail party e l’altro, tra un campo da tennis ed una piscina privata.
Le Niñas Bien raccontate da Alejandra Márquez Abella sono essenzialmente loro, ed anche a volersi soffermare un po’ su possibili approfondimenti psicologici che ne caratterizzano tic e modi di fare, il risultato sarebbe misero come fare un elettrocardiogramma ad un manichino.
Donna perbene è anche Sofìa, la protagonista del film interpretata da Ilse Salas. Perbene ma anche totalmente persa in un mondo d’ovatta costruito su tasselli di obsolescenza programmata ed amori platonici destinati a rimanere fantasia. Il mondo lì fuori deve essere duro ma a lei non importa, se ci si può barricare per scelta nel lusso di una villa un po’ come ne L’angelo sterminatore.

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Quando poi in Messico scoppia la crisi (quella economica del 1982) qualche vaga minaccia di ritorno alla realtà prende vita sotto forma d’eritema, ma Sofìa combatte tempestivamente il problema facendosi più larghe le spalline della giacca. Il marito, Fernando (Flavio Medina), aveva accumulato ricchezze da suo padre, ma ciò sembra non bastare più. Piano piano allora la donna inizia a capire che se i rubinetti della villa restano a secco non si può «chiamare direttamente il Ministro dell’acqua» o che anche fare la madre è tutt’altra cosa se non puoi più contare sull’aiuto di una tata.

Da questo punto in poi Las Niñas Bien diventa un film che certifica la caduta del ceto borghese messicano, raccontato con incursioni televisive e carte di credito bloccate.
La vera pecca è che il descrittivismo che caratterizzerebbe solitamente il primo atto della storia, nel lavoro di Alejandra Abella si dilata invadendo anche quei momenti in cui la struttura narrativa dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo di un conflitto.

Las ninas bien
Questa tendenza, per quanto ben supportata da interessanti soluzioni fotografiche, lascia però nello spettatore un senso di disputa irrisolta, di castrazione del finale colmabile soltanto con un gigantesco «e allora?».
Non c’è cattiveria o senso del grottesco come in Buñuel, ma nemmeno quei toni mortiferi che pervadono i lavori di Guillermo Arriaga. La borghesia non cade, né risorge. Persiste solo una continua certificazione del niente, rappresentazione di personaggi di paglia con l’elettrocardiogramma piatto come quello di un manichino. 

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