#RomaFF13 – The Hate U Give. Incontro con George Tillman Jr

“Il passaggio dalla nostra comunità a quella dei bianchi somiglia sempre ad un viaggio verso qualcosa di lontano”: il regista afroamericano racconta il suo nuovo film all’Auditorium

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Dopo essere passato per il Festival di Toronto, oggi è il turno di The Hate U Give, presentato direttamente da George Tillman Jr, secondo regista afroamericano che approda a questa edizione della Festa del Cinema di Roma dopo Barry Jenkins.

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E di comunanze tra il suo film e If Beale Street Could Talk ce ne sarebbero non poche, a partire dalla rievocazione di una poeticità, di una bellezza di fondo che appartiene e deve appartenere al genere umano, nonostante tutto. E’ lo stesso Tillman a ribadirlo in conferenza stampa: «Anche io come Starr (la ragazzina protagonista della storia) vengo dalla periferia. Mi ricordo che agli inizi degli anni ’70 mio padre, un operaio, un giorno venne improvvisamente licenziato e, negli stessi giorni, nel nostro quartiere un ragazzo fu ucciso. Mio padre disse che quello sarebbe stato un Natale particolarmente difficile, con meno regali e quell’atmosfera così pesante, ma di fatto tutti nella nostra comunità volevamo continuare ad essere felici insieme. Ricordo che ci furono tante risate ma anche tanto dolore. Dal dolore abbiamo trovato la gioia, ed io ho cercato di rievocare proprio questo tramite il personaggio di Starr: l’umanità, la collettività, sono l’unico modo per riuscire a superare tutta questa disumanità che serpeggia!».

The Hate U Give, frase estesa dell’acronimo THUG, bandiera del gangsta-rap da Tupac Shakur in poi, prima di diventare un film è infatti anche il titolo del libro che Tillman ha deciso di portare sul grande schermo, perché «L’odio che dai, prima o poi ti fotte». Il regista di Milwaukee lo ripete forte e chiaro. Parla di «sistema», di una struttura – il capitalismo – che prima lascia ai margini della società migliaia di persone, poi le costringe a spacciare e delinquere e alla fine le arresta, quando va bene. Così, dice Tillman, si crea un impianto poco virtuoso reso ancor più tragico dallo sdoganamento in America delle armi: «E’ una delle cose del libro che più mi interessava rendere. Se addirittura un bambino nel film riesce a prende la pistola dal padre è per questa insensata legittimazione della violenza. E’ tutto legato al capitalismo e alla fine chi ne paga il prezzo? Le classi più deboli».
Poi continua dicendo che le dinamiche del film stanno crescendo in maniera esponenziale negli Stati Uniti, un Paese che vede sempre più diviso e ancorato alle questioni etniche: «spesso anche io mi sento come Starr, la protagonista del film. Per questo ho voluto rappresentare anche un personaggio come Maverick, un padre di famiglia nero e coi tatuaggi, che tutti penserebbero un criminale. Tutti penserebbero che è un criminale, sicuramente ha commesso degli errori, ma tramite quella figura volevo ribadire che si può crescere superando i propri sbagli».
In fondo anche lo stesso Maverick è vittima del sistema, anche lui ha dei pregiudizi sul fidanzato bianco di Starr e questo è dovuto al fatto che, continua Tillman, «noi afroamericani spesso dobbiamo muoverci tra due codici: il passaggio dalla nostra comunità a quella dei bianchi somiglia sempre ad un viaggio verso qualcosa di lontano, una cosa che ho passato anche io e che vi volevo assolutamente raccontare!».

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