#RomaFF14 – Bellissime, di Elisa Amoruso

Amoruso non intende lambire mai la deformazione grottesca di questo showbiz di provincia, e di questi disperati tentativi di aggrapparsi ai bordi del mondo dello spettacolo

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Più seguiamo il percorso di Elisa Amoruso, più nella sua opera di sceneggiatrice, documentarista, imminente regista di finzione (del venturo Maledetta primavera con Micaela Ramazzotti), ci appare centrale l’apporto dell’autrice allo script di Cloro, il titolo di Lamberto Sanfelice su una Sara Serraiocco atleta di nuoto sincronizzato e il suo rapporto con l’ombroso padre Giorgio Colangeli. La performance coreografica che nasconde il faticosissimo lavoro fatto sott’acqua per mantenere la resa estetica in superficie, il giudizio della fama inseguita ma prima di tutto dello sguardo genitoriale, sono tematiche che poi Amoruso porterà con sé in questo esplicito dittico Chiara Ferragni Unposted/Bellissime.
Del contestatissimo lavoro sull’influencer, questo Bellissime recupera la struttura tra dietro le quinte di eventi “mondani” di abissale vacuità, e il ricorso massiccio a home movies girati dalle videocamere delle madri come primo addestramento ad una vita costantemente sotto i mirini degli obiettivi.

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Mancano le interviste agli “opinionisti”, e in generale l’intero apparato è downscaled dal punto di vista di chi vive ai margini dello spettacolo, annaspando per trovare l’entrata o un ritorno dopo una carriera infantile da “baby Barbie”. Allontanandosi dallo spunto di partenza dell’inchiesta omonima sul mondo delle baby miss, pubblicata da Flavia Piccinni per Fandango Libri, il pedinamento alla famiglia Goglino, le figlie Giovanna, Francesca, Valentina, e la mamma Cristina Cattoni, permette alla regista di raccontare allora la versione da incubo felliniano dei preparativi del matrimonio-evento dei Ferragnez visti in Unposted: tolta l’evanescente spettralità di quel divismo binario, rimane qui la molto più tangibile disperazione di sfilate di provincia dedicate a statue di Fabrizio Frizzi, provini e book fotografici in catena di montaggio, calendari di “donne over” in pose plastiche senza veli, e ospitate in canali tv locali.
Amoruso non intende lambire mai la deformazione grottesca alla Cinese in coma, ma le situazioni di confronto familiare a tavola o tra i lettini a prendere il sole non riescono a veicolare un’umanità che il documentario sembra cercare con forza, da opporre alle derive della filiera dello showbiz di provincia e all’archivio agghiacciante dei cosiddetti selftape che Cristina riprende delle figlie ancora piccolissime mentre sfilano e recitano filastrocche nel salone di casa.

Come accade alla figura di Fedez nel film precedente, e come probabilmente già in tutto Strane straniere, la regista continua a raccontare una società delle donne in cui qualunque reale riferimento maschile (mi arrischierei a scrivere “virile”) è depotenziato, se non svanito: il litigio tra Cristina e le ragazze riguardo alla figura del padre (assente dal film come il fratello di cui sentiamo soltanto parlare) assume allora l’importanza quasi di una dichiarazione di intenti, su di una femminilità che si affida ancora ai codici di messinscena canonizzati da un’industria maschile (bellezza, prestanza fisica, avvenenza…), ma ne rifiuta a più livelli il controllo.

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