#RomaFF14 – Le Metamorfosi, di Giuseppe Carrieri

Racconto mitopoietico di un’umanità solitaria che mescola linguaggi differenti seguendo le suggestioni del testo ovidiano. A dar voce al cantore, Marco D’Amore

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La trasformazione. Di corpi, persone, mondi, immaginari. Punizione divina, insindacabile, che ricade sull’uomo; più raramente un premio, che viene concesso dopo una lunga serie di peripezie. Partendo dalle molteplici suggestioni del testo ovidiano, Giuseppe Carrieri firma un esordio (presentato in Panorama Italia ad Alice nella città) denso di stimoli visuali, di forme mutevoli che trovano nel cinema la loro corrispondenza più attuale. Siamo nella periferia di una Napoli quasi irriconoscibile, fuori dal tempo, dall’aspetto rovinoso: macerie che testimoniano il passaggio di una forza distruttrice; carcasse di animali, rifiuti, residui di un’umanità solitaria. Una bambina rom scappa da creature primitive, diaboliche e si rifugia nel corpo di una balena radioattiva, che prende vita attraverso un’animazione piuttosto essenziale – linee bianche su sfondo nero. Il suo è lo sguardo dell’evasione, della meraviglia, del senso di stupore di fronte a una sostanza che diventa fantasia. Accanto a lei, personaggi che invece sono immersi nel reale: un pescatore malato di cancro che vive sulle rive di un fiume inquinato e un camerunense che è costretto a gettare in mare il corpo della moglie perché non ha la possibilità di darle sepoltura.

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La narrazione è quella tipica del mito, frantumata, e tenuta insieme dalla voce fuori campo del suo cantore, in questo caso Marco D’Amore, che recita i versi delle Metamorfosi in napoletano antico. E come Ovidio, Carrieri si abbandona a una regia virtuosistica, barocca, che osa nel mescolare linguaggi differenti. La camera, ad esempio, si avvicina spesso ai personaggi, come a coglierne i movimenti invisibili del pensiero: le parole sono pressoché assenti e le interazioni con lo spazio circostante limitate; le immagini, soprattutto all’inizio, sono sporche, poco leggibili e tendono ad annullare il confine tra il dentro – il dolore nelle sue diverse espressioni – e il fuori riversando sullo spettatore un senso di spaesamento. Più si va avanti, più si prosegue in questo racconto mitopoietico, per cui la morte e la vita sono inserite in un ciclo che può essere anche rinascita come insegna il mito di Dafne, più il quadro si fa chiaro, la topografia definita, la realtà tragica e presente: “dedicato a bimbe rom diventate mare”, riporta la didascalia finale.

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