#RomaFF14 – The Farewell, di Lulu Wang

Impercettibile, lieve e profondo. Un piccolo miracolo il secondo film della cineasta, capace di inserire un umorismo bizzarro in mezzo alla componente emozionale. Con un finale travolgente

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Il tempo che resta. Racchiuso in una ritualità fatta di gesti ripetuti spessi ripetuti e (in)consapevolmente prolungati. Prima che finisca tutto. Non c’è solo un confronto tra il diverso modo di vivere negli Stati Uniti e in Cina in The Farewell, secondo lungometraggio di Lulu Wang. Ma soprattutto sembra quasi esserci una mutazione attraverso la figura di Billi. Che è nata e vissuta in America e torna a Changchun quando viene a sapere che la nonna sta per morire. Ma i familiari hanno deciso di tenere nascosta la verità all’anziana donna per farle vivere serenamente gli ultimi giorni. E per far funzionare al meglio il piano, hanno deciso di organizzare velocemente un matrimonio.

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Attraverso  la protagonista (interpretata da Awkwafina, già vista anche in Cattivi vicini 2 e Ocean’s 8) sembra esserci lo sguardo in prima persona di Lulu Wang. La regista è nata infatti a Pechino ma si è trasferita fin da piccola negli Stati Uniti. E The Farewell si porta dietro dei segni autobiografici.  Evidenti non tanto nel modo di raccontare la storia, ma in una continua complicità nel modo di parlare tra i personaggi, nei gesti, nelle situazioni. A cominciare dalla telefonata tra Billi e la nonna all’inizio del film. Con la ragazza che cammina per strada a New York e la donna che invece si trova in ospedale in attesa del responso.

The Farewell è basato su una bugia vera. Come recita la didascalia iniziale. E racconta i legami familiari in modo impercettibile, lieve e profondo. In cui la cineasta guarda dichiaratamente al cinema di Kore-eda combinato con l’umorismo bizzarro di quello di Östlund. Evidente nella scena in cui la ragazza arriva in albergo ma non funziona l’ascensore. Dove la colonna sonora al piano (suonata dalla stessa Wang) diventa quasi un altro elemento autobiografico parallelo visto che la cineasta si è formata come pianista classica. Ma ci sono tanti piccoli dettagli filmati in maniera trasparente, quasi con discrezione, ma con una cura e un’intensità notevoli. Come il momento in cui il padre e la figlia cantano insieme Killing Me Softly durante il matrimonio.

The Farewell filma il tempo, l’attesa, quasi come proiezione dei desideri di Lulu Wang. Che dopo il primo lungometraggio, Posthumous del 2014, mette in gioco un altra recita. Lì un artista  ha raggiunto il successo dopo viene considerato erroneamente morto. Qui invece la finziona attorno alle condizioni di salute della donna amplificano ogni istante vissuto insieme. Basta una cena, uno sguardo in più. I suoni delle voci familiari contrastano invece con i rumori della metro newyorkese. Ecco, il confronto Cina/Usa avviene soprattutto a livello percettivo. Di suoni, di sapori. E nel finale si scioglie in un grande abbraccio. Quello sguardo tra la nonna e la nipote ha qualcosa di struggente, di insostenibile. Sulle note della versione rivisitata di Come Healing di Leonard Cohen. Le strada verso l’aeroporto sarà guardata per l’ultima volta così. La prossima volta, anche se si attraverserà lo stesso percorso, sarà comunque diverso. Perché il cinema di impatto immediato di Lulu Wang una cosa determinante ce la dice. Che le cose che noi guardiamo non sono sempre uguali per tutti. Anche se sono oggetti o grattacieli. E neanche per noi. A distanza di tempo. E la stessa cosa accade con le persone. Quel rapporto nonna/nipote è lacerante come quello tra il produttore e la domestica che si è occupata di lui sin da quando era bambino in A Simple Life di Ann Hui. Lulu Wang si lascia progressivamente contagiare dalle emozioni. E The Farewell vola. “Variety” ha inserito la Wang tra i cineasti da tenere d’occhio per il 2019. Siamo totalmente d’accordo.

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