#RomaFF14 – The Irishman, di Martin Scorsese

ll film più autobiografico degli ultimi vent’anni scorsesiani, “l’ultima tentazione di un regista” che immagina il suo gangster movie definitivo come una lunga parabola di espiazione e solitudine

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“The Irishman è stato prodotto da Netflix e in qualche modo questo ne ha allungato la durata. In altre parole non ero sicuro se dovesse essere, ad esempio, un film di due ore e dieci minuti o se poteva addirittura arrivare a quattro ore. Non ero nemmeno sicuro del luogo ideale di visione. E quindi, in un certo senso, l’ho reso puro nella mia testa. Mi sono detto: e se fosse solo un film? E se dovesse essere lungo quanto ci sentiamo o breve quanto ci sentiamo?” Martin Scorsese

It is what it is“… come ripete Russ Bufalino/Joe Pesci sentenziando sul destino di chi gli sta intorno. Di cosa stiamo parlando? The Irishman è innanzitutto un progetto cullato per ben dieci anni da Robert De Niro e Martin Scorsese (qui nella loro nona collaborazione insieme), sopravvissuto al tribolato rapporto con la Paramount Pictures che prima si ritira temendo il rischio di costi troppo elevati e poi cede definitivamente i diritti a Netflix (the other side of cinema…) che ne approfitta per produrre il manifesto più costoso della sua lucida operazione di legittimazione culturale. La piattaforma streaming più potente del mercato on demand, infatti, non ha paura di perdere denaro sul breve periodo e assicura carta bianca a Scorsese sia a livello creativo sia a livello tecnico con la sperimentazione del tanto dibattuto de-aging che fa pian piano lievitare il budget a ben 160 milioni di dollari. Fermi tutti! Un film di Martin Scorsese distribuito direttamente in streaming? Con i volti di Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci riportati digitalmente all’età di trenta o quarant’anni? Ma è possibile tutto ciò? E allora via alle battaglie culturali per salvaguardare “il sacro passaggio in sala” al film più atteso dell’anno e via anche alle dispute teoriche su “cosa è diventato il cinema” nel XXI secolo…

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Stop. Partiamo da qui: perché spendere 160 milioni di dollari per ringiovanire digitalmente tre attori quasi ottantenni invece di ingaggiare tre star più giovani (magari gli stessi Leonardo Di Caprio, Matt Damon o Brad Pitt) che avrebbero fatto contenere di molto i costi di produzione? “Desideravo fare questo film insieme ai miei amici”, risponde semplicemente il regista. Ed è una risposta tutt’altro che banale, sottilmente etica e teorica, che svela il senso più intimo di questo film: The Irishman è il monumentale tramonto di un’epoca e di un modo di fare cinema che ha ancora bisogno di quei volti per significare nel 2019. Scorsese ci invita al suo personale e malinconico ballo in maschera con la storia del cinema dove ogni attore/personaggio ha un suo passato immaginario che torna come nostro ricordo: Al Pacino è ancora un potente e solitario Michael Corleone che guarda dal portico di un lago (forse ricordando il fratello Fredo), perennemente inquadrato in primissimo piano con gli occhi spenti di un re vampiro come ne Il padrino parte II; Harvey Keitel è il boss dei boss che grazia ancora De Niro come fosse il Charlie invecchiato di Mean Streets che salva Johnny Boy per l’ennesima volta; Joe Pesci parla italiano e intinge il pane nel succo d’uva come faceva a casa della madre in Quei bravi ragazzi; infine Robert De Niro confonde il passato e il presente come in C’era una volta in America, mentre è affetto da una cronica solitudine esistenziale in voice over come in Taxi Driver. In quello struggente abbraccio finale sul retro di un’automobile, in quell’ultimo gesto d’affetto che Travis Bickle concede a Michael Corleone prima del tradimento, balena nitidamente la fine di un mo(n)do cinematografico diventato un fantasma di memoria. La New Hollywood.

Ed eccoci doverosamente al film: il gangster movie definitivo di Scorsese chiude quindi l’ideale tetralogia sulla malavita a livelli sempre più alti – dai piccoli teppisti di Mean Streets ai boss metropolitani di Quei bravi ragazzi, dai nuovi tycoon in trasferta nella Las Vegas di Casinò sino alle collusioni con le altissime sfere della politica americana in questo The Irishman. Scorsese e lo sceneggiatore Steven Zaillian adattano il romanzo di Charles Brandt I Heard You Paint Houses dove Frank Sheeran, l’irlandese del titolo, è un manovale della mafia che si muove dagli anni cinquanta ai primi anni duemila facendo scivolare il film negli abissi della sua memoria (De Niro, del resto, è sempre anziano e affetto da artrite…de-aging o meno). Un umile soldato che scala posizioni da uomo nell’ombra della famiglia Bufalino (capeggiata da un sublime Joe Pesci in versione minimalista e raggelante), a braccio destro del potente leader del sindacato trasporti Jimmy Hoffa (Al Pacino dà vita a un nuovo umanissimo Riccardo III shakespeariano che questa volta baratta tutto il suo regno non per un cavallo, ma per assistere al sorriso di una ragazzina o per ballare dolcemente con una figlia acquisita). Hoffa è l’uomo di mezzo che trascina il film nel “fuori campo” della Storia americana illuminando gli ambigui legami di tutti questi personaggi con gli omicidi politici degli anni Sessanta (John Kennedy in primis) e con le trame più nascoste del potere (a partire dalla Baia dei Porci per arrivare al Watergate). Un materiale incandescente sottolineato dal montaggio intermediale con l’archivio televisivo d’epoca che ci concede le versioni ufficiali sempre osservate in silenzio da questi imperturbabili e spietati testimoni. Sì, certo… ma delle ossessioni antropologiche scorsesiane per il “contesto” è rimasto ben poco e persino di quel contagioso barocchismo visivo nel montaggio a ritmo di musica rock resta solo un’eco lontano: la fedelissima Thelma Schoonmaker prova ancora una volta a orchestrare una modalità di racconto che ricordi Quei bravi ragazzi, ma si ferma ben presto sulle soglie di piccoli gesti contingenti e ripetuti che fanno dilatare i tempi in un approccio registico che pian piano si asciuga nel rigore bressioniano.

Eccoci al punto: ai fiumi di denaro che scorrono fluidi nelle inquadrature di Casinò dettando il tempo di ogni azione si sostituisce qui l’incomprensibile ossessione per la puntualità di Hoffa o la sua gioia senile per un semplice gelato; alla sete di potere o al cinismo criminale di Goodfellas si sostituisce un commovente senso di colpa per l’amicizia tradita (come in Ford e poi in Peckinpah, certo) che fa spesso guardare nel vuoto uno statuario De Niro. E ancora gli omicidi brutali diventano uno stanco rito che non affascina più nessuno e che sconvolge per ripetitività fine a se stessa del gesto. Infine il più radicale dei sovvertimenti immaginari: alla mitologia dei padri gangster di inizio Novecento (da Don Vito Corleone in poi) si sostituisce lo sguardo severo di una figlia che sminuisce ogni fascino criminale (il personaggio di Anna Paquin è potentissimo nel suo mutismo doloroso che racchiude un giudizio terribile sulle sue due figure paterne). Da questo punto di vista le sovrimpressioni con le circostanze (spesso) violente delle morti e con le date precise ripetute per ognuno dei singoli personaggi palesano definitivamente questo ballo di morti incastonato in un epitaffio lungo 210 minuti.

E allora: è difficile non percepire The Irishman come il film più autobiografico degli ultimi vent’anni scorsesiani. Certamente il film più “religioso” nel senso dell’ultima tentazione di un regista che immagina il suo gangster movie definitivo come una lunga parabola di rimorso e solitudine terminata con uno spiraglio aperto sulla redenzione. “Lasci la porta socchiusa, Padre, perché anche la morte non sia così definitiva“. Il film è del resto la storia di un viaggio nel deserto verso Detroit, il viaggio di Frank Sheeran e Russ Bufalino verso Jimmy Hoffa, quindi verso un amico che ha il destino segnato. Perché “è ciò che è“. Un viaggio dove fermarsi in varie tappe, sempre in luoghi significanti, che schiudano tracce di memoria in flashback dal vago sapore bergmaniano. Insomma, Scorsese mischia Mean Streets al Il posto delle fragole, Goodfellas a Pickpocket, L’ultima tentazione di Cristo a C’era una volta in America, partorendo “il film puro che ha in testa” nel 2019. A settantasei anni. Un film sformato, stranamente disequilibrato per un cineasta ossessionato dalla forma, ma che sa raccontare con magnifica e coraggiosa sincerità la condizione di quel cinema in questo secolo. Gli ultimi quaranta minuti del film configurano il lento ed emotivo denudarsi di un regista, di un personaggio, di un attore e di un’intera stagione di cinema americano arrivata al suo ultimo atto. Senza nessun vezzo stilistico che possa ornare un momento così puro.

Infine, che cosa abbiamo visto? Un film per la sala o una miniserie Netflix? Un museo di maschere da vivere come un lutto (per citare Guillermo De Toro) o una sperimentazione costosissima sui nuovi domini dell’era digitale? Non importa. Perché è nel corso del tempo che The Irishman rivendica ancora di essere cinema e nient’altro che cinema coagulando le potenze di ogni nuovo format(o) audiovisivo con l’immenso archivio di forme del Novecento diventato nel frattempo memoria condivisa. Ossia l’immagine de-aged ma intimamente autentica dei nostri ricordi cinematografici: “It is what it is”.

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