#RomaFF14 – Waves, di Trey Edward Shults

La sfida di Waves parte dall’armamentario dell’autorappresentazione black di questa generazione per astrarsi verso un sentire universale. Tra Dolan, Jenkins, e un visual album di Frank Ocean

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Trey Edward Shults tenta con Waves una via di mezzo tra Xavier Dolan e un visual album di Frank Ocean, non si risparmia in virtuosismi formali (l’impressionante montaggio dell’incipit mozzafiato, che fa vorticare più volte i punti di vista e l’incedere delle immagini tra esagitazione da stories e i testacoda di un video a 360°), leziosità fotografiche e giochi strutturali con narrazioni e formati (le dimensioni dello schermo subiscono numerosi resizing nel corso della visione). L’idea è far scontrare riferimenti con fin troppa evidenza debitori del cinema BAM di Barry Jenkins con un apparato visivo stratificatissimo che ha bisogno, per essere sostenuto, non solo dell’impegno dei tappeti sonori di Trent Reznor e Atticus Ross ma di tutta un’altra massiccia playlist spesso e volentieri micidiale (difficile davvero resistere alla sequenza finale su True love waits dei Radiohead), utilizzata a sottolineatura letterale di quanto va accadendo sulla scena, ribadito dalle lyrics dei pezzi (esemplare in quest’ottica la ritornante What difference a day makes, classico del soul).

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E d’altronde è già il titolo dell’opera a svelarne la natura di racconto ad ondate, ritmiche e gonfie di tumulti: Shults divide in due la vicenda, e se la storia di Tyler è un progressivo rinchiudersi e restringersi della libertà d’azione del protagonista, e conseguentemente del campo dell’immagine, la seconda metà è invece una esponenziale apertura del quadro e del viaggio compiuto, dentro e fuori di sé, dalla sorella Emily.
La sfida di Waves parte allora dall’armamentario dell’autorappresentazione black di questa generazione, sistema di segni e pratiche quotidiane che mantiene urgenza e centralità al di là delle stagioni e delle istanze hollywoodiane, per astrarsi verso un sentire universale che innervi le immagini del sangue del perdono, della comprensione, dell’impossibilità reale della mente e del cuore di arrivare davvero pronti all’istante della morte.

Al terzo film (i due precedenti, Krishna e l’horror It comes at night, godono di un piccolo culto tra gli appassionati), Trey Edward Shults chiede forse troppo alle sue abilità di tenere in equilibrio una materia che non si preoccupa di esplicitare le proprie forzature e di mettere in scena il gioco scoperto e reiteratissimo di simmetrie e rimandi tra le parabole dei due fratelli, mentre sottotraccia vuole anche mantenere una latente rilevanza politica: com’è inevitabile in un approccio come questo, il film funziona per istanti, sprazzi, connessioni tra le immagini e scintille anche abbacinanti, ma rischia spesso di crollare sotto il peso della sua stessa (davvero letterale) sovraesposizione.
L’intero cast resiste con una performance mastodontica, tra il Tyler di Kelvin Harrison Jr, il padre del vertiginoso Sterling K. Brown e il sempre affidabile Lucas Hedges, la sorpresa è qui Taylor Russell, canadese classe 1994, nel ruolo di Emily, seriamente il raggio di luce più luminoso di tutta la fotografia di Drew Daniels, il d.o.p. di Euphoria qui effettivo coautore nascosto dell’opera.

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