#RomaFF14 – Where’s My Roy Cohn?, di Matt Tyrnauer

Il documentario sull’avvocato più spregiudicato e chiaccherato d’America risulta anche interessante ma è al tempo stesso schematico non riuscendo ad approfondire ulteriormente la sua dimensione privat

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Oscilla tra la curiosità e il fastidio, tra il fascino perverso e il totale disprezzo, la reazione “a primo impatto” al documentario di Matt Tyrnauer, Where’s My Roy Cohn?, presentato in concorso al Roma Film Festival 2019, e già accolto con apprezzamenti al Sundance.

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Il regista, produttore e giornalista (corrispondente per il settimanale «The New York Observer» e per la rivista «Vanity Fair»), già autore dei documentari Valentino: The Last Emperor (2008) e Scotty and the Secret History of Hollywood (2017), torna a indagare su una figura controversa, scomoda, bestiale della storia politica americana.

Attraverso l’impiego di uno stile piuttosto classico, che segue l’ordine cronologico degli eventi principali a cui si fa riferimento, ricostruisce la carriera di Roy Cohn, l’avvocato più spregiudicato e “chiacchierato” d’America, dalla sua ascesa, al fianco del senatore Joseph McCarthy, sino alla caduta (fu radiato dall’ordine nel 1986 per condotta non etica) e infine alla morte (avvenuta poche settimane dopo, per AIDS).

Un uomo scaltro, arrivista, senza scrupoli e senza sentimenti. Immorale e menzognero, si rese colpevole di numerosi misfatti, senza essere mai incriminato legalmente. Dalla clamorosa vicenda della condanna a morte per spionaggio dei Rosenberg (1951), con cui il giovane Cohn si fece notare, guadagnandosi la triste fama dell’intransigente «giustiziere legale», alla crociata anticomunista della commissione McCarthy, sino alla persecuzione degli omosessuali. Questi e molti altri momenti cruciali vengono ricostruiti nel documentario, integrando gli aneddoti di collaboratori, conoscenti e parenti di Cohn con materiale di foundfootage: filmati d’archivio, quali riprese televisive, dichiarazioni ai media, udienze e registrazioni dai processi; nastri di sue dichiarazioni durante le interviste; immagini e fotografie tratte dal suo archivio personale, di cui sono stati acquistati i diritti. 

L’innata capacità di riportare la propria versione e di influenzare la stampa, l’atteggiamento ipocrita e di perenne negazione della verità lo ha accompagnato fino alla morte: egli non ha mai ammesso di essere omosessuale e di avere l’AIDS, forse anche per «non abbandonare il suo stesso mito».

Abile demagogo, manipolatore e provocatore, Cohn ha plasmato a suo piacimento alcuni degli eventi pubblici del periodo tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso, contribuendo alla creazione della tipologia del «burattinaio politico», sulle cui orme (e “grazie” al quale) si è sviluppato l’attuale sistema che ha portato alla ribalta il Presidente Donald Trump. Proprio a quest’ultimo, protetto di Cohn e suo allievo nell’apprendere tutti i segreti per ottenere successo a qualsiasi costo, si deve l’attribuzione del bizzarro titolo dell’opera: pare che questa frase sia stata pronunciata da Trump con tono nostalgico durante un momento di esasperazione per l’operato inefficiente del suo avvocato Jeff Sessions. Memore degli insegnamenti del maestro, anche Trump si è invischiato in affari corrotti e legati agli ambienti mafiosi (come nel caso della costruzione della Trump Tower a New York). 

Risulta evidente l’intento divulgativo ed educativo del film, che rappresenta una denuncia silenziosa, ma eloquente, dell’origine di una linea politica oggi preoccupante, basata sul motto (inaugurato da Cohn e ripreso da Trump) «attaccare per non essere attaccato, non chiedere mai scusa, negare sempre anche davanti alle prove evidenti». Chiaro segnale delle tecniche di propaganda sfacciate, crude, probabilmente risalenti (a detta stessa del regista) all’operato dei più crudeli strateghi del passato (Hitler, Goebbels), emerge un problema che non deve essere sottovalutato, ma piuttosto denunciato apertamente. Questo documentario si propone tale obiettivo, al pari di altre opere similari che vedono adesso la luce, ad indicare l’urgenza di mostrare e condannare una politica corrotta, maligna, senz’anima. 

Non è un caso che lo stesso argomento venga trattato (da una prospettiva più privata e sicuramente meno neutrale) anche in Bully. Coward. Victim. The Story of Roy Cohn, documentario diretto da Ivy Meeropol (la nipote dei defunti Julius ed Ethel Rosenberg) per HBO, presentato qualche settimana fa al New York Film Festival. L’emittente televisiva statunitense aveva già affrontato la vicenda di Cohn, seppur in chiave romanzata, nella miniserie drammatica Angels in America (2003), a sua volta tratta dall’opera teatrale omonima di Tony Kushner (1992).

Nonostante alcune interessanti rivelazioni sulla vita sessuale e su certi comportamenti di Cohn, presenti nel documentario di Tyrnauer, la mancanza di un ulteriore approfondimento del suo privato rende difficile un coinvolgimento emotivo dello spettatore, che tende ad analizzarne la figura misteriosa in maniera schematica, focalizzandosi principalmente sull’aspetto pubblico. L’intento del regista risulta comunque chiaro, nonostante l’atto di “condanna” rimanga tra le righe, accennato ma mai espresso direttamente, eccetto che nella citazione finale, un monito alle nuove generazioni per non ripetere più gli stessi errori.

«Così tanto potere in mano a un uomo tanto sconsiderato e arrogante può diventare davvero pericoloso».

 

 

 

 

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