#RomaFF14 – Willow, di Milčo Mančevski

Il macedone Mančevski torna alla struttura ad episodi, che tanto gli è cara sin dai tempi di Pred dozhdot (Prima della pioggia), Leone d’oro al Festival di Venezia

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Il regista macedone Milčo Mančevski nel suo sesto lungometraggio, Vrba, torna alla struttura ad episodi, che tanto gli è cara sin dai tempi di Pred dozhdot (Prima della pioggia), Leone d’oro al Festival di Venezia, il suo riconoscimento più prestigioso. Le analogie non si fermano a questo, torna il ricorso ai salti temporali minimi o dilatati e torna la rappresentazione di ambienti antitetici, l’assetto rurale e quello urbano, per dileguare le distanze dentro problemi che si fanno beffe di costume ed epoche differenti, ma restano in un recinto socioculturale immutato. Il punto in comune dei racconti risiede nella difficoltà di tre donne (Donka, Rodna e Katerina) a concepire un figlio e nei sistemi adoperati per superare l’ostacolo, l’arcaico ricorso alle pratiche magiche, con i rituali da esperire assecondando la natura e gli spiriti che vi risiedono, o una speranza racchiusa in vitro, con l’incantesimo che diventa molecolare grazie all’inseminazione artificiale e alla fecondazione assistita. Tecniche lontane, eppure subordinate in fondo alla stessa fiducia nella fede cristiana, sfondo nel quale sembra appiattirsi ogni altro sistema, come un cerchio totemico gravitazionale da cui risulta impossibile staccarsi, nonostante le delusioni, e le illusioni raccolte.

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La continuità narrativa segue uno schema apparentemente classico, assecondando il passaggio dal passato al presente, partendo da un mondo primitivo dove nascono le maledizioni e si contraggono debiti di sangue, che non ha altra eredità da lasciare se non il pianto delle disgrazie per un patto tradito con il destino, ed un unico frutto avvelenato.

Antenati sporchi, ignoranti, creduloni, che disperano di avere una prole per riversarvi l’attesa di un riscatto postumo, vengono traslati nei corrispettivi moderni, ancora poveri ed ancora a corto di fortuna, ancora a pregare una divinità per il rifiuto inaccettabile del reale.

Rimedio alla sterilità può arrivare da un’adozione, da un’intensa terapia ormonale, da un cerimoniale di liberazione, forme d’amplesso alternative nel territorio dell’amore. I toni neutrali usati per illustrare le conseguenze tragiche e la gioia incontenibile danno spazio ad un punto di vista univoco e perdono di spessore per uno sguardo ampio ma poco dettagliato, generalista. L’intento dell’autore probabilmente era quello di riflettere attraverso lo schermo la doppia anima del Salice piangente, albero che dà nome al titolo, simbolo dal carattere duplice, della bellezza femminile e delle ferite inferte dall’amore, primavera o inverno, per indicare una similitudine sostanziale. E per favorire un impianto di tal fatta costruisce personaggi pieni di ambiguità, dai limiti poco definiti, che restano indeterminati e suggeriscono un ciclo di eterno ritorno dell’eguale, ma lasciando alle loro spalle parte del loro fuoco sacro.

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