#RomaFF17- La cura. Incontro con Francesco Patierno e il cast

Partito coma adattamento, il regista e il cast (Alessandro Preziosi, Francesco Di Leva) raccontano la genesi di un film che vuole parlare al presente pandemico attraverso il metacinema

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Ho scelto Camus proprio perché avevo voglia di raccontare il momento, ma non volevo farlo con un instant movie, e il testo di Camus mi permetteva di agire più largamente. Poi il meccanismo meta-cinematografico è nato in corso d’opera… 

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Così il regista di La cura giustifica la scelta di un adattamento da Albert Camus fuori dagli schemi di una trasposizione nella maniera più classica – scollegandosi dalla polpa narrativa e incentrandosi sul tema, la pestilenza o più concretamente la pandemia. Difatti il film nasce ed evolve in periodi non facili, osteggiato dalla fase più dura del lockdown. Quindi l’intero progetto prende la forma di un racconto che vuole collegare cinema, letteratura e presente. Anche gli interpreti parlando della fase di ripresa e lavorazione come di un tempo sospeso, come per ognuno di noi accadde nei primi tempi dell’emergenza pandemica nel 2020. Primo su tutti Antonino Iuorio – nel ruolo di Grand – che commenta:

“Girare questo film è stato come sognare, un po’ come tutto quel periodo… Anche se questo è un piccolo film c’è dietro una grandissima anima, il regista ci ha scelti singolarmente e ci ha portati in una situazione di grande impegno immersivo… A lungo andare è stato come se questo grande gioco del cinema fosse scomparso”

Quindi Patierno (La gente che sta bene, Naples ’44, D!va) firma un’opera che racconta una Napoli, quella del lockdown. Il processo e l’imminenza di una situazione di emergenza hanno plasmato il resoconto di una lavorazione tutt’altro che facile in una situazione che ad oggi sembra, fortunatamente, destinata a svanire.

Ricordando la genesi del film il regista spiega come sin da principio la non linearità delle riprese fosse parte del metodo, inducendolo a fondere realtà e finzione, fino ad arrivare al risultato finale.

“Durante i primi giorni di riprese, quelli del primo lockdown, a me e alla troupe sono successe cose che mi hanno convinto che anche quel materiale sarebbe stato interessante da raccontare. Proprio in quel momento, io che amo i meccanismi narrativi non lineari, ho iniziato a pensare alla divisione dei due piani: la finzione, quindi la messa in scena de La peste di Camus e la realtà. Due linee che dovevano muoversi alternandosi e in un determinato punto del film, fondersi. Tutto ciò sempre in maniera non meccanica, per fare in modo di far scivolare lo spettatore nel dramma di Camus senza rendersene conto”

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