Ci sono tre Polanski. C’è il Polanski uomo, il settantacinquenne stanco che intravediamo nella foto a sinistra all’interno della vettura che lo sta portando da moglie e figli per scontare gli arresti domiciliari in attesa dell’estradizione in America. C’è poi il Polanski regista naturalmente, che vince il premio Oscar per Il pianista (senza poterlo ritirare) ed è autore di almeno 5-6 capolavori assoluti.
Ma ce n’è anche un altro, che è quasi un’essenza astratta, in-filmabile né fotografabile, che sembra non esistere. Ma che – demonicamente!? – sovrasta l’uomo e il regista. Il terzo Polanski in realtà non ha una vera e propria identità, né una collocazione precisa. Il terzo Polanski è, molto semplicemente, POLANSKI. È il Polanski che si affanna a creare il suo Mito, brindando con la tragedia e con la grandezza. In tal senso il cinema c’entra poco. O anzi, meglio, c’entra tutto. Sono i film che – paradossalmente – finiscono con il non entrarci per niente. POLANSKI dirige letteralmente il Polanski uomo e il Polanski regista. Si fa beffe del primo e porta in trionfo il secondo, con l’obiettivo di mescolare a tal punto arte e vita, da renderne irriconoscibili, o quasi, i confini.
Ogni tanto il terzo Polanski emerge anche in piccole provocazioni che rimangono sulla bocca dei media per non più di una giornata, alza polveroni innocui, che presto dimentichiamo ma che indicano assai bene il progetto ineluttabile. Quando ad esempio in un dibattito televisivo con Truffaut nei primi anni ’80 dà a Hitchcock del pover’uomo per non “essersi saputo godere la vita”, lasciando il regista parigino in malcelato imbarazzo, o quando sbeffeggia la Nouvelle vague, i cui film lo "terrorizzavano per il loro stile amatoriale e la povertà tecnica. Assistere alle proiezioni era per me una tortura impossibile”, o addirittura quando, in tempi recenti, abbandona la conferenza stampa cannense di un film collettivo (Chacun son Cinéma) perché le domande dei giornalisti vengono da lui giudicate stupide e inadeguate, lasciando di sasso i 33 colleghi presenti all’evento (tra cui Moretti, Assayas, Campion, Cimino, Kitano, Konchalovskij, ecc.). Poca roba, a pensarci bene, rispetto al ghetto, alla perdita per omicidio della propria compagna (Sharon Tate) e del figlio che portava in grembo, alla condanna per abuso sessuale su una minorenne, alla fuga da Hollywood, dove gli unici due film che ha realizzato si chiamano Rosemary’s Baby e Chinatown, e all’arresto farsesco/roboante durante una visita in Svizzera per ritirare un premio alla carriera (!).
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Il terzo Polanski gioca perennemente a dadi col Fato. Ma non si capisce bene se è sempre sfortunato e se lo faccia a posta a uscire continuamente sconfitto. Sembra quasi seguire un disegno preciso, un progetto sperimentale su quanto sia possibile perseguire la performance nella vita, tra un film e l’altro. La cosa più paradossale, però, è che di questo terzo Polanski finiamo con l’essere tutti dei piccoli complici: i giudici accaniti, i giornalisti, i registi firmatari della liberazione, i cinefili che si indignano e i moralisti che insorgono, i nazisti che invadono la Polonia e ammazzano la povera madre, Charles Manson e i suoi hippie-killer “in acido”, Jack Nicholson e la villa del “misfatto”, il festival di Berlino che (polemicamente? Programmaticamente?) accetta di presentare in concorso il suo ultimo film (ma quando lo ha girato? Chi lo ha montato?). Tutti vogliamo far parte di questo Roman(ce) Polanski. Siamo i co-autori di POLANSKI. A real masterpiece.
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Bellissimo pezzo!<br />E' interessante (secondo me) notare come il "Terzo Polanski" coincida spesso con il Polanski attore.<br />Per fare un esempio: prendo un tuo passo e aggiungo qualcosa:<br />"POLANSKI dirige letteralmente il Polanski uomo e il Polanski regista."<br />(Una pura formalità)<br />"Ma non si capisce bene se è sempre sfortunato e se lo faccia a posta a uscire continuamente sconfitto."<br />(L'inquilino del terzo piano)