Romería, di Carla Simón

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Un viaggio autobiografico si trasforma in un thriller intimo intrappolato in un’esistenzalismo di maniera che perde totalmente il controllo quando accentua la dimensione metaforica. CANNES78.Concorso.

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Tra la metà degli anni Ottanta e le giornate di luglio 2004. Quaderni, foto, voci di dentro. In Romería, titolo che fa riferimento ai pellegrinaggi popolari spagnoli, non c’è solo la necessità di riscoprire i veri legami familiari ma anche quella di fare un viaggio interiore verso un passato per scoprire i segreti nascosti. La diciottenne Marina Piñeiro, che è stata adottata durante l’infanzia, deve ottenere un documento di stato civile necessario per la borsa di studio. Per averlo, ha bisogno della firma dei nonni materni che non ha mai conosciuto. Va così sulla costa atlantica, a Vigo, e con l’occasione incontra anche il resto della sua famiglia. Il suo arrivo riporta a galla il passato e rivela nuovi dettagli sulla morte del padre.

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Al terzo lungometraggio, la cineasta spagnola Carla Simón punta a una forma volutamente frammentata. Marina, che ha l’innocenza e il turbamento del volto di Llúcia Garcia, segue i capitoli del diario della madre per questo thriller intimo che resta intrappolato in un esistenzialismo di maniera quando si chiede, per esempio, se essere dello stesso sangue significa essere della stessa famiglia, quale persona sarebbe oggi la ragazza se fosse cresciuta solo con il padre. La cineasta di Barcellona, classe 1986, non trova la distanza necessaria in questo film con chiari riferimenti autobiografici (i suoi genitori sono morti di AIDS quando era molto piccola) e non sfrutta lo sguardo periferico della protagonista rispetto la famiglia del padre quando invece ne è completamente immersa. In più c’è una spaccatura con l’ambiente dove la luce della fotografia di Hélène Louvart si riduce a una contemplazione dello spazio, che raramente interagisce con la storia, tranne in uno sguardo onirico e metaforico (con il gatto la barca in mezzo al mare) che fa emergere un passato che dialoga in modo confuso con il presente e appare totalmente fuori controllo.

Dopo Estate 1993 del 2017 e Alcarràs. L’ultimo raccolto del 2022 con cui ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale, il cinema della regista abbandona la campagna catalana, riproponendo i temi del lutto e della disgregazione familiare. Rispetto al film precedente, perde la misura e scivola in appassiti ritratti di famiglia in un interno come nella scena del nonno che da i soldi ai nipoti e stavolta molti personaggi restano ai margini. Forse su di loro è quello che resta dello sguardo di Marina. Anche la sua potenziale visione soggettiva non fa però scattare l’immedesimazione e il suo personaggio naviga assieme alla regista alla ricerca di un viaggio a cui si resta estranei.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
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Il voto dei lettori
5 (2 voti)

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