Ronald Reagan, il sogno americano tra cinema e politica

E' morto a novantatrè anni Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti dal 1980 al 1988, nonchè attore cinematografico che, con una presenza rassicurante e una formidabile coerenza professionale, ha attraversato buona parte del cinema americano degli anni Quaranta e Cinquanta.

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Quando nel 1980 Ronald Reagan divenne il quarentesimo presidente degli Stati Uniti, la Casa Bianca divenne improvvisamente il set più illuminato del mondo, lo spazio in cui il sogno diventa realtà e la politica resta finzione, in un'accensione evocativa che incoronò primo degli americani un uomo di natali non certo illustri, non proprio un politico di professione, anzi, un mestierante cinematografico, un attore, addirittura. Trionfo del sogno americano, delirio di un Paese che ama portare alla ribalta i suoi figli, chiunque siano e da qualsiasi luogo provengano? Diciamo di sì, aggiungendo che in quel gran laboratorio politico, sociale, e culturale tout court che è e sarà sempre l'America, Reagan ha rappresentato la regola e l'eccezione, il consolidarsi di precise strategie di potere e al tempo stesso il concretizzarsi di un sogno, quello che forse faceva da ragazzo sulle spiagge di Rock River, mentre osservava il mare e la sua sublime distesa azzurra… Reagan nacque a Tampico, un piccolo centro della California nel 1911. La situazione familiare che ha accompagnato la sua infanzia non era delle migliori: se infatti la madre Nelle era una donna molto ligia al lavoro e sempre pronta ad aiutare il prossimo, il padre Jack era un alcolizzato cronico, che riversava sulla sua famiglia il carico delle sue frustrazioni. Tempo di scelte allora, tanto che Ronald decide che è giunto il momento di divenire indipendente, affrancandosi dalla famiglia.

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Durante l'estate lavora allora come bagnino a Rock River (pare che in pochi anni di lavoro salvò settantasette persone dall'annegamento) per poi laurearsi nel 1932 all'Eureka College, università conservatrice protestante. Finiti gli studi, Reagan muove i primi passi all'interno del mondo dello spettacolo. Dapprima si cimenta infatti nelle vesti di annunciatore e telecronista sportivo, poi è la volta del vero e proprio ingresso nel cinema, come attore. Ci troviamo alla fine degli anni Trenta e Acciaio Umano di Lewis Seiler può essere considerato l'esordio dell'attore in un'opera che si raccoglie attorno all'opposizione violenta in un riformatorio tra giovani ed adulti. Qui Reagan è già protagonista, immerso in un cinema sì fisico e muscoloso (interessante a questo proposito la presenza dei Dead End Kids, già presenti nel folgorante Strada sbarrata di Wyler), m ancora ostaggio di una messa in scena basata su un approccio chiaramente teatrale. E' una presenza singolare quella di Reagan nel cinema americano di quegli anni.Lontano dalla forma di un cinema prettamente autoriale, bensì affascinato dalla deriva del genere e dai suoi sottofondi carsici, l'attore americano non segue nessuna norma, nessuna regola, ma alterna opere in cui è confinato sullo sfondo (una di queste è I Pascoli dell'odio in cui Reagan interpreta un ufficiale durante la Guerra di Secessione) ad altre in cui occupa direttamente la scena principale, pur non imponendosi mai in modo immediato. Allergico infatti ad ogni aurea divistica, Reagan è stato per buona parte del cinema americano degli anni Quaranta e Cinquanta una sorta di volto ricorrente e in fondo rassicurante, l'immagine di un interprete che lavora nelle retrovie del sistema, ma senza per questo rinunciare ad una sua idea di cinema e soprattutto ad una formidabile coerenza professionale (ma va ricordato che Reagan venne eletto nel 1947 presidente del sindacato attori, e fu noto il suo accanimento in quel ruolo contro gli attori accusati di comunismo negli anni del maccartismo). Prova ne è la sua straordinaria interpretazione in Delitti senza castigo di Sam Wood (1942) in cui Reagan si ritrova povero e invalido (gli vengono amputate entrambe le gambe), eppure capace di formidabili slanci affettivi ed emozionali che lo portano a vivere un burrascoso e tormentato mèlo con la sua Randy (Ann Sheridan, futura interprete di Ero uno sposo di guerra di Hawks). Allora, dietro una facciata apparentemente inscalfibile, Reagan è capace di nascondere un'anima assolutamente romantica e un cuore che non smette mai di battere, in un progress artistico che ne sottolinea proprio questa valenza mèlo. In La valle del sole si trova allora a contendersi la donna che ama con un altro uomo, nel bellissimo La foglia di Eva è un pittore che riunisce tante piccoli parti di donna, finendo poi per innamorarsi della ragazza dei suoi sogni (Virginia Mayo), in La sposa rubata si trova conteso tra una donna che ha sposato per farle ottenere la cittadinanza americana e la fidanzata che non vuole saperne, per non parlare poi del divertente e folle Bonzo la scimmia sapiente in cui Reagan imbastisce con uno scimmione un rapporto padre/figlio che scatena equivoci e malintesi a non finire (celeberrima la sequenza in cui l'attore si trova a letto con lo scimpanzé). Solo alcuni esempi allora, per dire di un attore che viaggia velocemente da un set all'altro, che non pianifica quasi nulla, ma che ha la forza di annullarsi di volta in volta nel personaggio interpretato. Ma c'era un genere che forse Reagan amava più degli altri, un vero e proprio sottobosco di pulsioni elementari e di passioni infuocate, un universo in cui ridire la passione e l'emozione, sia pur diversamente rispetto alle opere degli anni Quaranta. Parliamo del western e di opere come L'assedio di West Point,  Il giustiziere in cui il sogno d'amore del protagonista (appunto lo stesso Reagan) deve fare i conti con un pericoloso gruppo di banditi, ma soprattutto dei due (fra i tanti) capolavori di Allan Dwan, La regina del Far West e La jungla dei temerari. Reagan e il west allora, nel suo zenith autoriale/attoriale. Dwan è uno dei grandi classici dimenticati di Hollywood, Reagan uno di quegli interpreti che sembrano tagliati apposta per il suo cinema. Ne La regina del Far West il classico è puro e tagliente, con una donna al centro del racconto (la Stanwick, coeva della Crawford di Johnny Guitar) che si barcamena tra un gruppo di razziatori e un certo Colorado (lo stesso Reagan), figlio del capo dei Piedi Neri, che le dà aiuto. Anche qui pieno genere tagliato trasversalmente da furori passionali che Dwan gioca con interessanti corpo a corpo e con la formazione progressiva di un personaggio memorabile (appunto Colorado/Regan) di cui forse si sarà ricordato Sergio Leone raccontando la vicenda simile di Armonica/Charles Bronson in C'era una volta il West. Ma non è forse un caso che l'interpretazione della vita per Reagan arrivi proprio in una delle sue ultime apparizioni sul grande schermo, ne La jungla dei temerari (sempre di Allan Dwan) in cui dà vita ad un memorabile looser condannato a non poter amare (la donna che vuole sposare è in realtà un'approfittatrice), e soprattutto a distruggere la bella amicizia creata con Tennessee (John Payne), non senza però pagare i suoi sbagli con la vita, immolandosi sull'altare di un legame virile che ha pochi eguali nel cinema americano degli anni Cinquanta. Reagan era così. Romantico fino al midollo, testardo e ammirevole nell'ostinazione con cui ha portato sugli schermi un'America che stava lentamente cambiando e con cui ha fatto del cinema un luogo in cui intimità e pubblico dominio si confondono (basi pensare che nella sua penultima interpretazione per il cinema, Le pantere dei mari, recita accanto a sua moglie Nancy, futura first lady americana). E' così allora che, dopo aver partecipato al suo ultimo film, il bellissimo Contratto per uccidere di Don Siegel (qui Reagan divide la scena addirittura con Lee Marvin, John Cassavetes e Angie Dickinson), Reagan passò ufficialmente alla politica (entrò tra le file dei repubblicani), divenendo Governatore della California nel 1970 a vincendo anni dopo le elezioni, divenendo Presidente degli Stati Uniti. Vita e storia allora, politica e cinema. Fa piacere pensare che negli anni del disgelo tra gli Stati Uniti e la Russia, Reagan si sia trovato improvvisamente sul set moscovita di Stallone e del suo Rocky 4, ad applaudire un autore che evidentemente amava molto. Emblema di una classicità immediata e fuori dal tempo a cui Reagan forse ha sempre aspirato

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